Come riformare il capitalismo
Nel suo libro “Ripensando il capitalismo. La crisi economica e il futuro della sinistra” Salvatore Biasco ricostruisce i cambiamenti indotti dalla globalizzazione e dal primato della finanza nei rapporti fra economia e democrazia. E propone una nuova agenda per la sinistra: dal socialismo al comunitarismo ►In calce una replica di Salvatore Biasco
Già nel 2009 con il suo libro “Per una sinistra pensante” Salvatore Biasco aveva messo in discussione, con il pregio di una critica che nasceva dall’interno, la cultura politica del PD e, in particolare, la curvatura neoliberale che essa era andata assumendo attraverso i vari passaggi successivi alla fine del Pci e l’incontro con la sinistra democristiana e ulivista. La tesi principale del libro, sostenuta in una discussione ravvicinata con il libro del 2007 di Michele Salvati (“Il partito democratico per la rivoluzione liberale”), era che rigore, concorrenza, merito e uguaglianza delle opportunità fossero principi non solo insufficienti a mobilitare il popolo della sinistra, ma anche inadeguati a garantire sviluppo e coesione sociale. Il libro ebbe una certa risonanza perché usciva mentre già si facevano sentire gli effetti della grande crisi scoppiata nel 2008, che non potevano non rimettere in discussione teorie e scelte politiche assunte acriticamente negli anni precedenti dal Washington consensus e cristallizzate nell’impianto istituzionale ed economico dell’Unione Europea.
A tre anni di distanza Salvatore Biasco ritorna sugli stessi temi con più respiro e sistematicità nel suo nuovo libro “Ripensando il capitalismo. La crisi economica e il futuro della sinistra” (Luiss university press editore). Il libro articolato in cinque capitoli esamina in primo luogo i cambiamenti indotti dalla globalizzazione e dal nuovo capitalismo finanziario nei rapporti fra economia e democrazia, poi le caratteristiche della formazione e della diffusione dell’egemonia culturale di questo nuovo capitalismo. Dall’accademia, con la vittoria del monetarismo e della teoria delle aspettative razionali, fino ai media, ai partiti politici e al senso comune delle persone, orientato verso il consumismo e l’individualismo. Il terzo capitolo analizza l’impatto culturale neoliberale sull’apparato di pensiero dei partiti socialisti in Europa ed esplora le vie e i segnali di una possibile reazione. Il quarto esamina e soprattutto propone la scelte per una “riforma del capitalismo”, scelte che dovrebbero ispirare la sinistra, articolandole nei vari campi della politica europea. L’ultimo capitolo prova a tradurre in italiano i cambiamenti politico culturali intervenuti nella sinistra europea sotto l’influenza neoliberale e propone l’interrogativo di “quanto socialismo ha bisogno la sinistra italiana”. Il libro ha il pregio della chiarezza e della sinteticità, corredato di poche note essenziali, si presta ad una agevole lettura.
Per un giudizio di insieme direi che la pars destruens, se così vogliamo chiamarla, cioè quella che descrive e critica gli effetti strutturali della globalizzazione e del dominio del capitale finanziario sugli equilibri economico-sociali e sulla democrazia, e soprattutto gli effetti dell’egemonia del “pensiero unico” sulla sinistra e sugli stessi orientamenti dei ceti popolari ( fra i quali è sintomatico il prevalere della figura del consumatore su quella del cittadino) è sicuramente la parte meglio riuscita. Impietoso, ma fondato, anche alla luce dell’esperienza personale di chi scrive e ne è stato partecipe, è il giudizio sull’evoluzione Pci-PD, anche se Biasco ne vede timidi segni di trasformazione a partire dal 2010 . “Avendo deposto qualsiasi velleità di elaborazione – scrive Biasco descrivendo quel processo- avendo concepito con grande superficialità e piatta ritualità la funzione politica del/i partito/i; avendo azzerato la discussione progettuale interna e dissipato capitali intellettuali e umani, era inevitabile che l’area del centrosinistra assorbisse abbondantemente ciò che trovava pronto per l’uso sul mercato delle idee, divenendo progressivamente priva di autonomia culturale”. Per realizzare una autentica svolta intellettuale l’autore rivendica “la riconquista di una consapevolezza collettiva che una società guidata dal profitto privato produce una grave differenziazione sociale, interessi contrapposti che non trovano mediazione se non nella legge del più forte, fallimenti di mercato e instabilità economica …. che solo col primato della politica sull’economia possono essere portati sotto controllo e governati”. Direi però che a partire da questa affermazione comincia, a mio modo di vedere, la parte più problematica di questo saggio, anche se prima bisogna ricordare l’utile e vasta panoplia di politiche che Biasco propone come programma alla sinistra europea e italiana.
Muovendo dalla costatazione che la crisi fa tornare di attualità i temi rimossi del ruolo dello stato, delle regole e dell’eguaglianza, nel quarto capitolo l’autore sintetizza un gruppo di proposte che da tempo hanno ampia circolazione fra gli economisti critici e che più recentemente hanno cominciato a circolare, sia pure in modo disorganico, fra i partiti socialisti in Europa e nel centrosinistra italiano. Proposte che egli vede finalizzate alla costruzione di un capitalismo riformato e “desiderabile”. Si va dal ruolo centrale della politica della domanda al recupero della programmazione pubblica e delle politiche industriali, dal controllo della finanza alla democrazia economica, affrontando sia i problemi dell’emergenza che quelli a medio e lungo termine.
La problematicità cui sopra mi riferivo nasce dal fatto che Biasco sembra denunciare una insufficienza di basi teoriche anche in un programma pur così puntuale e ambizioso. Più volte nel testo egli ribadisce che “l’errore a sinistra è stato non capire che a un formidabile apparato di pensiero si risponde con un formidabile apparato di pensiero, che faccia riferimento a una visione paradigmatica da cui trarre analisi, giudizi e indirizzi di azione e linee di orientamento da presentare alla pubblica opinione”. Ma questa denuncia della mancanza di un nuovo paradigma scientifico del pensiero economico lascia lettore non specializzato come il sottoscritto, abbastanza disorientato, in quanto Biasco la accompagna con poche e difficili note, soprattutto di carattere metodologico (pg. 60-63) , senza peraltro misurarsi con i filoni degli economisti critici, dai post-keynesiani, ai seguaci di Sraffa e ai marxisti, che pure animano il dibattito politico e scientifico a livello italiano e internazionale. Resta dunque in sospeso, se leggiamo bene, come e dove Biasco pensi si debbano costruire le basi di un nuovo paradigma economico capace di produrre una rivoluzione scientifica paragonabile a quelle keynesiana degli anni ’40 e a quella monetarista degli anni ’70.
Un altro nodo problematico che potrebbe collegarsi a questo si propone sul terreno politico-sociale. Biasco auspica in altra parte del libro la costruzione di un “programma massimo” della sinistra che dia “un’idea di dove una forza politica intenda andare, di quale visione della società prende a riferimento… di un futuro differente e cambiato radicalmente, da cui estrarre per il presente ciò che il realismo consente di percorrere”. Ma, sempre col beneficio di una corretta lettura, questo programma, questo futuro non hanno, secondo me, nella costruzione di Biasco gambe sufficienti su cui camminare. Occorre notare , a questo proposito, che il saggio che pure per certi versi ricorda l’elogio della esperienza socialdemocratica contenuto nell’ultimo libro di Tony Judt ( “Guasto è il mondo”) intrattiene con quella esperienza un rapporto contraddittorio. Sembra che l’esperienza socialdemocratica del dopoguerra abbia presupposti teorici troppo radicali per la sinistra che Biasco propone in questo libro. Non è solo questione di uscire dai ristretti confini nazionali e di riportare le classiche politiche socialdemocratiche su scala europea, è qualcosa che attiene al livello delle ambizioni di cambiamento. Scrive infatti: “Nel suo periodo d’oro” le politiche socialdemocratiche erano “la traduzione in pratica di una teoria alternativa della società”; oggi invece occorre un “orizzonte meno ambizioso e più pragmatico che definirei come la ricerca della massima estensione possibile del principio di socialità all’interno di una riconquista del primato della politica sul mercato”.
Emerge qui una visione che chiamerei comunitarista della trasformazione sociale, che non a caso presuppone la fine della lettura della società attraverso la lente delle classi sociali. Biasco fa sua la teoria ampiamente diffusa della fine del lavoratore come soggetto collettivo e come perno delle alleanze sociali. La globalizzazione e le trasformazioni tecnologiche comportano la “inapplicabilità analitica e politica dei vecchi modelli di divisione sociale”. Fine delle classi sociali come soggetti generali non significa però per Biasco fine della polarizzazione della società che oggi, in termini di diseguaglianze, egli giudica anche più grave che nel passato . Ma la costruzione di una nuova alterità che Biasco vorrebbe capace di riproporre il “noi e loro” della tradizione socialista e comunista, è affidata soprattutto all’azione politica e pedagogica. Biasco pensa che “ la battaglia per l’eguaglianza si combatte in primo luogo sul piano culturale e dell’egemonia, rendendo i movimenti socialisti e democratici il centro di emanazione di culture solidaristiche e comunitarie, di moralità e responsabilità sociale”. Obiettivo che egli ha sintetizzato su l’Unità del 30 dicembre scorso quando ha proposto di integrare la dichiarazione di intenti del PD con una più netta affermazione identitaria. “Noi siamo – ha scritto – il partito con la visione comunitaria che vuole prefigurare … una società cooperativa e mutualistica, che valorizza la collegialità sociale e mira a ricostruire il senso di collettività e comunità pezzo a pezzo”. Mi ricorda per certi aspetti alcune voci del socialismo utopistico che negli anni giovanili ci insegnavano a guardare con una certa supponenza. Ora non è più certo tempo per quella supponenza.
Restano però alcune domande di fondo che il libro di Biasco inevitabilmente ripropone. Può esserci cambiamento sociale, anche dentro il limite di un capitalismo radicalmente ridefinito, che non abbia grandi soggetti sociali collettivi come protagonisti e colonne portanti? Se la fine degli anni del compromesso socialdemocratico non è stata solo il risultato dei cambiamenti delle tecniche di produzione o della rivoluzione intellettuale monetarista, ma anche e prima di tutto della modifica dei rapporti di forza fra i lavoratori e le imprese, si può prescindere dalla dialettica fra quei soggetti sociali, per quanto profondamente cambiati e riarticolati al loro interno, nel delineare il cambiamento sociale desiderato? Può esserci una trasformazione solo affidata all’azione politica e culturale di partiti rinnovati, anche in profondità come chiede Biasco, che dovrebbero assolvere alla funzione maieutica di riplasmare la società attraverso una grande azione pedagogica e una paziente tessitura di micro interessi su base comunitaria? E che rapporto si definisce fra questa ricostruzione comunitaria e le grandi scelte su scala europea che Biasco propone nella sua agenda programmatica? E infine, può reggere una sfida alla dominante cultura liberale e individualista poggiata più sul comunitarismo che sul socialismo?
Riformare il capitalismo: una risposta a Turci
di Salvatore Biasco
Sono grato a Lanfranco Turci per l’attenzione che dedica al mio libro, con una lettura attenta e vivace. Gli sono anche grato perché dalla sua lettura capisco che probabilmente qualcosa é da cambiare nel mio libro se una persona così viva intellettualmente e piena di passione e acume politico, come lui é, é indotta a trarre conclusioni che sono lontane dalla mia ispirazione.
Mi riferisco soprattutto alla presa di distanza, che mi attribuisce, dalla esperienza socialdemocratica e dagli insegnamenti che se ne possono trarre per l’oggi. Derivo ciò innanzi tutto dalle sue perplessità sul fatto che avrei sostituito un ideale comunitario a uno socialista, generate da un equivoco dovuto alla terminologia che uso (tra l’atro, solo nel capitolo “italiano”). Lo derivo anche da un giudizio (che mi viene attribuito) circa la radicalità dell’esperienza storica socialdemocratica, contrapposta a un programma più pragmatico di introduzione di elementi di socialità nel meccanismo capitalistico, che io propongo.
Mentre tutte le domande che Turci pone in chiusura sono importanti e pertinenti (e, ahimé, vorrei avere una risposta sicura per esse), l’ultima non lo é. Affrontando problemi di identità del Pd, come faccio nell’articolo sull’Unità, che riprende frasi del libro, non potevo riferirmi a una concezione “socialista” della società, che é un’indicazione un po’ troppo generica e indefinita (e che in Italia ha anche connotati negativi per il general public), né all’identità socialdemocratica che, sebbene ha certamente implicazioni più definite, indica una specifica forma mentis solo per pochi intellettuali, ma significa purtroppo poco per le masse, a causa della storia anomala della sinistra, che non ha mai conosciuto una opzione socialdemocratica vera e propria.
Uso altri termini. Nel modo in cui Turci riporta il punto sembra quasi che proponga tanti kibbutz o tanti comitati operativi di circondario come l’obbiettivo di costruzione della società che dovrebbe appartenere alla sinistra. Non si spiegherebbe altrimenti la contrapposizione che lui pone tra socialismo e comunitarismo. Per me una società “comunitaria, mutualistica e cooperativa” (sono i termini che uso alternativamente) é una società in cui sono esaltati i legami collettivi (sempre), dove la coesione sociale é una priorità, dove la logica del mercato é temperata e corretta dall’autorità dello Stato, dove quest’ultimo é un mediatore attivo tra interessi e aspirazioni diverse (ma anche il depositario dell’interesse nazionale, verso il quale tende di far convergere tutti i gruppi sociali, non mortificando la partecipazione e esaltando la responsabilità). Non vado avanti nei connotati, perché penso che questi bastino a capirsi.
E’ ovvio che questa impostazione debba essere riprodotta a vari livelli nel corpo della società, anche in azioni e proposte simboliche. Deve essere sempre presente nel segno delle politiche e dell’organizzazione sociale che quelle politiche presuppongono. Nel macro quanto micro. Già dall’inizio del libro, a pagina 14, definisco i caratteri che qualificano in più o in meno una società democratica [1]. Avrebbe dovuto bastare. A me i termini usati sembravano i più evocavi per l’Italia, ma nel futuro starò attento affinché la loro scelta non diventi fonte di malintesi, addirittura generando dubbi sulla mia ispirazione agli orientamenti socialdemocratici.
Anche l’altro punto non é come mi viene attribuito. Ho solo inteso rimarcare che allora la socialdemocrazia poteva avere un’idea compiuta di società, da narrare e perseguire realisticamente; oggi questo compito é più complesso, perché più complessa é la società. Tuttavia, un programma in cui la sinistra si proponga di spingere in avanti la frontiera dei caratteri sociali da introdurre nel meccanismo capitalistico – in un processo ideale e di azione politica che non ha mai fine perché ad ogni avanzamento l’obiettivo si allarga e si ripropone su altri fronti – a me sembra un programma fin troppo radicale. Certo bisognerà tener pur sempre conto che la logica capitalistica pone dei limiti (che comunque occorre tentare di forzare) e che una forza di governo non trova legittimazione senza la capacità di dimostrare che é in grado di mantenere dinamica l’economia e la società. Ma questo é ciò che i socialdemocratici (quando al governo nel periodo d’oro) hanno sempre saputo. D’altra parte, quanto io indico come indirizzo per le forze socialiste europee (indirizzo a cui dedico un intero capitolo, che ritengo una componente essenziale della pars construens) é un programma di mutamento profondo dei connotati del sistema in cui viviamo. E’ un programma anche fin troppo rivoluzionario (ma, come sostengo, guai a non essere guidati da un “programma massimo”). Quel programma é tutt’uno con la consapevolezza che il sistema capitalistico é instabile e diseguale e che perno della sua stabilità é la fiducia collettiva che solo lo Stato può generare. Si tratta di una consapevolezza cui dovrebbe tendere la costruzione teorica.
E qui veniamo alla questione del paradigma scientifico. Non penso che un programma politico possa trovare ispirazione primaria solo sul piano delle opzioni morali o dei giudizi di valore, specie in un mondo in cui la cultura dominante e il senso comune sono quelli affermatisi col nuovo capitalismo. L’ispirazione primaria non può non essere in una solida interpretazione dell’economia e della società (che possa essere contrapposta a quella dominante). Personalmente, vorrei una sinistra che combatta la battaglia delle idee e dei modelli di economia (per questo ho scritto il libro), mentre, al contrario, ha assorbito l’dea che non vi sono alternative, se non modeste, all’esistente. Senza quella battaglia – e forse anche un pizzico di utopia -non si cambia il senso comune.
Nel mio libro faccio notare – come puro dato di fatto – che nelle circostanze in cui un humus culturale diffuso é divenuto storicamente elemento di propulsione degli eventi vi é sempre stata una sistemazione astratta che ne é stata l’ancoraggio (magari ignota alle masse che di quell’humus sono il soggetto, ma non ignota alle elite). Penso che a ciò non potrà fare eccezione una controrivoluzione futura e auspicata. Volendo non lasciare la questione alla pura enunciazione – ma inoltrandomi a indicare qualche passaggio su cui si può costruire una visione rivale a quella dominante (che ritenevo anch’esso un contributo alla pars construens) – potrei aver dato l’impressione che il compito attenga agli accademici e agli specialisti. Se Turci ha tratto quella impressione ha ragione di esser perplesso. Confesso che anch’io mi sono chiesto se non finivo per darla, il che mi induce a pensare che in una prossima eventuale edizione quelle indicazioni sul paradigma alternativo saranno eliminate o poste in appendice. Non é quello che intendevo.
l cuore di una costruzione teorica alternativa é il partito politico della sinistra (con la P maiuscola). Il partito politico é committente implicito di cultura e teorie. Con le sue opzioni, le sue necessità politiche, la sua capacità di organizzare e selezionare la cultura, la sua esigenza e capacità di sintesi (e anche con la sua esperienza e radicamento) crea una domanda, un consumo, uno stimolo, una pressione culturale. Guida e corregge l’ispirazione degli intellettuali e crea il terreno fecondo a una elaborazione di cui é il perno. Stabilisce un ping pong tra mondo dell’azione e dell’astrazione sintetica. Ma se tutto questo non c’é, non c’é neppure il resto. Prendiamo l’Italia: un partito allo sbando (come lo é stato finora, domani non so; é d’obbligo non essere pessimisti e forse qualche motivo c’é), un partito subordinato culturalmente, sempre alla rincorsa di intellettuali a la page (quelli che ripetono con buon eloquio i luoghi comuni); un partito che, non avendo una cultura solida, non riconosce nemici culturali, quale pathos culturale può mai diffondere e trasmettere? Io non intendo essere preso alla lettera nelle mie linee di ricostruzione dell’ “economia politica”, ma solo sollevare un problema e indicarne il cuore.
Ultima questione sollevata da Turci riguarda la riduzione delle diseguaglianze in cui sinceramente non afferro completamente i motivi delle sue perplessità. Non penso che sia in disaccordo sul fatto che senza raggruppamenti sociali che lottino per realizzare maggiore giustizia sociale é difficile conseguire l’obiettivo. Affermo che la diseguaglianza non é solo nel potere squilibrato tra lavoratori e imprese, ma in condizioni più generali della vita di ciascuno – nelle opportunità offerte, come nella faticosità stessa della quotidianità (certamente legata alle condizioni sociali), relativa a abitazione, trasporti, capacità di consumo, protezione della salute, opportunità per i figli, orari e onerosità dei lavori, tranquillità soggettiva, ecc..
Per una buona fetta della popolazione tutto ciò non é un problema, ma per un’altra tocca aspetti di vita nei quali si consuma una diseguaglianza forte con la parte agiata. Questo non giustifica – e l’ho scritto, quindi non può essere ciò che Turci mi imputa – l’abbandono del luogo di lavoro e della politicizzazione del rapporto di lavoro come terreno di contesa politica. Ma il luogo di lavoro non basta. Non basta, senza la presa di coscienza dei meccanismi stessi che producono quelle diseguaglianze, per la cui consapevolezza vi é necessità di cambiare la cultura comune, in primo luogo quelle convinzioni diffuse che la società é aperta e che le questioni si risolvano individualmente. Sebbene non ritenga che su questo possano esserci disaccordi con Turci, tuttavia colgo che qualcosa non lo convince. Forse un certo onirismo su questo punto, che é probabile ci sia (confesso e nego al tempo stesso che sogno, finché permangono queste diseguaglianze, che vengano gettate le uova alla prima della Scala, che le vetrine di via Condotti vengano imbrattate che chi va al check in per le Maldive trovi dei contestatori, anche se talvolta, non nascondo, che potrei essere oggetto di questo sentimento).
Forse, se leggo bene tra le righe del suo commento, Turci coltiva una scetticismo che del cambiamento di cultura di massa possa essere agente il partito politico (sempre con la P maiuscola). Potrebbe avere ragione. Ma questo non esclude che come militanti e intellettuali dovremmo combattere per affermare la direzione in cui vorremmo spingere il partito che dovrebbe rappresentare la base della piramide sociale (in una sintesi generale). A un certo punto mi sono posto la domanda “perché quella piramide non si é spezzata politicamente in due tronconi, sopra e sotto, e le diseguaglianze non son divenute motore del cambiamento sociale?”. Ho risposto: é una conseguenza della cultura dominante, ormai diffusa in tutti gli strati, e delle ricadute sociali e di potere che ne derivano, nonché del disarmo verso la ricchezza attuato dalla sinistra e quant’altro; la diseguaglianza si combatte anche sul piano culturale. Può darsi che la risposta debba essere più complessa; accetto qualsiasi altra risposta e conclusione. Ma quella domanda sul perché le diseguaglianze non siano oggi motore della società é cruciale per la ricostruzione di un programma politico della sinistra e per ricostruire la sua missione.
Turci discute scetticamente più che la pars construens del libro il “dover essere” che indico alla sinistra. C’é una mia storia che può garantirlo sulla mia collocazione e ispirazione analitica. Mi sono formato a contatto (non solo ideale) con il laburismo britannico degli anni ’60 e ’70 e ho ha subito il fascino delle esperienze storiche delle socialdemocrazie nordiche (e tedesca), che poi ho studiato. Non ho cambiato riferimenti ideali. Certo, ho visto la base sociale e il sostrato antropologico e di conformazione della società, nonché il contesto dell’economia mondiale, mutare radicalmente. E sullo sfondo di ciò, la mia ricerca si é indirizzata a individuare ciò che é ancora vivo (ed é tanto) dell’insegnamento socialdemocratico. La domanda che mi sono posto implicitamente é se la convinzione (diffusa anche nella sinistra non blairiana) che quel modello debba, invece, essere archiviato e consegnato alla storia non sia in sé l’evidenza di una sconfitta culturale epocale che ha concesso al modello vincente di presentarsi (o venire percepito) come privo di sostanziali alternative. Da qui prende le mosse il libro.
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