La crisi di Cipro e la svolta “darwiniana” della BCE
Nella crisi di Cipro la BCE si è resa protagonista di un'ingerenza politica senza precedenti che potrebbe dare l'avvio a un processo di ristrutturazione bancaria di tipo “darwiniano”. Se così fosse i paesi periferici dell'Unione potrebbero vedersi costretti ad abbandonare la moneta unica per mantenere il controllo sui capitali bancari
Ancora non conosciamo i suoi esiti, ma dalla crisi bancaria di Cipro possiamo già trarre qualche indicazione per il futuro. Molti commentatori ne hanno tratto spunti per valutare le possibili conseguenze di una tassazione dei depositi bancari. Per Donato Masciandaro la decisione di coinvolgere i depositanti nei salvataggi “sta facendo fare all’Unione europea una pessima figura” [1] . Per Marco Onado, un prelievo forzoso sui depositi ciprioti solleverebbe dubbi sul valore atteso dei conti correnti di tutta l’Unione e potrebbe quindi generare “un disastroso effetto valanga” per l’intero sistema bancario europeo [2]. Queste valutazioni colgono dei rischi reali. Ma vi sono anche altre minacce all’orizzonte. La crisi di Cipro crea infatti un precedente per certi versi ancora più pericoloso: mi riferisco a una nota diramata ieri mattina con la quale il Consiglio direttivo della BCE ha dichiarato che la liquidità di emergenza a favore della Banca centrale di Cipro sarà fornita solo fino a lunedì prossimo. Dopo quella data, l’erogazione di liquidità da parte della BCE sarà condizionata all’avvenuta ratifica di un accordo tra il governo di Cipro, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale, atto a garantire la solvibilità degli istituti di credito colpiti dalla crisi [3].
Il comunicato di Francoforte verte sull’idea che il banchiere centrale sia preposto a intervenire solo nel caso di una crisi di liquidità definibile di “breve periodo”, mentre non sia mai autorizzato a fornire ossigeno a istituti di credito che abbiano problemi di solvibilità di “lungo periodo”.
Alla base di questa linea di policy risiede una precisa visione teorica, secondo la quale è sempre possibile separare concettualmente una crisi di liquidità da una crisi di solvibilità. Questa tesi si colloca lungo la scia dei vecchi contributi di Bagehot sul tema. Tuttavia la letteratura più recente, sia mainstream che critica, l’ha messa fortemente in discussione: sotto date condizioni, infatti, una carenza di liquidità può facilmente trasformarsi in una crisi di solvibilità. In quest’ottica, è oggi possibile mostrare che la banca centrale, più o meno surrettiziamente, segue sempre una “regola di solvibilità” in grado di condizionare l’evoluzione degli assetti proprietari dei capitali interessati dalla sua azione di politica monetaria [4].
Ad ogni modo, non è questa la sede per valutare il grado di aggiornamento della teoria monetaria alla quale la BCE rinvia per giustificare le sue scelte. Senza dubbio più urgente è un esame delle ricadute pratiche di tali decisioni. A questo riguardo Alessandro Merli, sul Sole 24 Ore, ha commentato l’ultimatum della BCE nel seguente modo: “La Bce aveva detto in un primo tempo di voler attendere una decisione sul piano di salvataggio prima di deliberare sulla prosecuzione della fornitura di liquidità. Ora ha scelto di mettere pressione per una conclusione dell’accordo, consapevole del fatto che il perdurare dell’incertezza su Cipro può avere ripercussioni sui sistemi bancari del resto dell’eurozona” [5]. La chiave di lettura proposta da Merli trova in effetti dei riscontri nei comunicati ufficiali del Consiglio direttivo e delle altre istituzioni europee. Dai medesimi atti sembra tuttavia possibile trarre anche un’interpretazione meno benevola dell’ultimatum. La BCE, infatti, si è dichiarata pronta a chiudere i canali di erogazione della liquidità nel bel mezzo di una delicata trattativa sulle modalità di ricapitalizzazione delle banche in crisi. A ben pensarci, si tratta di un’ingerenza politica senza precedenti: a confronto con essa, persino la famigerata lettera di Draghi e Trichet inviata al governo Berlusconi nell’estate 2011 assume i caratteri del sommesso suggerimento. Il comunicato potrebbe dunque indicare che nel Consiglio direttivo della BCE è tornato ad esser prevalente, ed è anche divenuto esplicito, il gioco non cooperativo dei “falchi” della Bundesbank. Tale gioco, di fatto, consiste nel sottrarre tempo alle mediazioni politiche per forzare le liquidazioni degli istituti in difficoltà e i conseguenti processi di ristrutturazione del sistema bancario europeo. Obiettivo ultimo della strategia: favorire una modalità di unione bancaria di tipo “darwiniano”, dettata non dai compromessi politici ma da una aperta contesa sul mercato tra paesi più forti e paesi più deboli.
Qualcuno potrebbe a questo punto obiettare che il caso di Cipro è piuttosto circoscritto, in fin dei conti eccezionale, e che da esso non si dovrebbero trarre indicazioni sulle future linee d’azione del direttorio della BCE. Tre anni di crisi dell’eurozona dovrebbero tuttavia averci insegnato che proprio le peggiori eccezioni di politica economica europea tendono spesso a trasformarsi in perniciose ricette generali. Se così fosse, potremmo trovarci alle prese con un processo di unificazione bancaria europea scoordinato e brutale, molto diverso da quello solitamente auspicato dai suoi fautori. Una simile prospettiva dovrebbe costituire un monito soprattutto per l’Italia e per gli altri paesi periferici dell’Unione. Infatti, se lo scenario di politica economica non muta e le divaricazioni tra le economie dell’eurozona persistono, è evidente che anche la forbice tra i risultati d’esercizio delle banche dei paesi membri è destinata ad allargarsi. Se la BCE si mostrasse anche in futuro intenzionata a forzare i tempi delle ristrutturazioni bancarie, c’è motivo di temere che l’Italia e gli altri paesi periferici si presenterebbero all’appuntamento della selezione “darwiniana” nello scomodo ruolo di debitori costretti a liquidare alle condizioni fissate dai potenziali acquirenti.
Vi è chi ritiene che la questione della nazionalità del capitale bancario sia in fondo secondaria. Altri invece temono che trascurare il problema finirebbe per aggravare quella che Paul Krugman ha definito la “mezzogiornificazione” dei paesi periferici della zona euro [6]. Il dibattito è aperto, ma forse su un punto si dovrebbe convenire. Se la BCE decidesse di assecondare una ristrutturazione bancaria europea scoordinata e “darwiniana”, i paesi periferici maggiormente in difficoltà verrebbero posti di fronte a un tremendo dilemma: subire passivamente la ristrutturazione cedendo le quote di controllo delle banche, oppure abbandonare l’euro per mantenere l’ultima parola sugli assetti proprietari del capitale bancario. Naturalmente si può discutere su quale sarebbe il male minore tra le due opzioni, e sarebbe bene iniziare a farlo senza pregiudizi. Ma si dovrebbe già convenire sul fatto che la BCE, con comunicati come quello di ieri, sospinge i paesi periferici dell’Unione verso quel bivio.
di Emiliano Brancaccio
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[1] Donato Masciandaro, La Ue faccia intervenire l’Esm, Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2013.