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L’esempio di Carlo Vichi, patron di Mivar: “Se qualcuno assume 1200 dipendenti la fabbrica gliela regalo”

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L’ultimo samurai si chiama Carlo Vichi. Se c’è qualcuno che si impegna ad assumere 1000 o 1200 dipendenti lui gli stabilimenti li regala. Stanno ad Abbiategrasso e in tempi in cui persino la FIAT sbaracca la sfida di questo signore dalla schiena dritta sa di eroico. Vichi è un signore vecchio stampo, un novantenne molto più che lucido ed è quello che nel 1945 ha inventato e gestito la MIVAR, la fabbrica italiana di radio prima e di televisori poi. Tutte le famiglie hanno posseduto almeno uno di suoi apparecchi. Chi scrive ha una radio a valvole che ha superato il mezzo secolo di vita e che ancora funziona. I monitor MIVAR erano usati in diversi studi di regia, anche piuttosto titolati.

Oggi la fabbrica versa in condizioni tali che, praticamente, ha chiuso e gran parte degli operai sono in mobilità. Ma monsù Vichi non molla e dopo aver costruito un secondo modernissimo stabilimento modello solo con le proprie risorse lo cede gratuitamente (si avete letto bene, gratuitamente) a qualsiasi società o imprenditore serio e con un progetto serio. A una condizione: purché la produzione (televisori ma c'è già la riconversione industriale: arredi per grandi ambienti, come gli aeroporti) sia garantita da una forza lavoro di 1000 o 1200 dipendenti.

Vichi è l’ultimo degli autarchici, l’ultimo alfiere del “Made in Italy” ai limiti del nazionalismo, quello che non si è mai piegato a comprare circuiti a basso costo nel far east e che ha gestito tutta la sua vita di imprenditore come il “padrùn”: un po’ paterno, con la fabbrica come casa e gli operai come famiglia. Duro, a volte, ma sempre determinato e tuttavia anni luce dai “cumenda” anni ’70 e ’80 che col sigaro in bocca e la pappagorgia contavano più i dané che le persone o le idee.

Vichi, orgoglioso fino alla testardaggine, è stato resistente fino all’ultimo. Quando sono arrivati i transistor al posto delle valvole ha tenuto botta e così quando dal bianco e nero si è passati al colore. Poi sono arrivati gli LCD, i LED (che sono poi degli LCD a cornice retroilluminata LED) e gli schermi al plasma ed ha subito il colpo. Non voleva cedere – come hanno fatto tutti – a comprare i pannelli dai pochi produttori mondiali asiatici (sono due/tre i colossi che vendono a tutti) ma preferiva cercare una strada  italiana alle nuove tecnologie. Ha dovuto in qualche modo abdicare alla globalizzazione. E anche le sue TV che – senza alcuna pubblicità (quei soldi preferiva investirli sul prodotto, sulle linee o per il personale) – avevano la leadership sul mercato nazionale, hanno dovuto abdicare a un mercato dopato.

Ma Vichi sta ancora in trincea e oggi se cede lo fa senza piegarsi e con l'onore delle armi. La sua, quella di variare la produzione in arredi e di passare l’attività elettronica a costo zero a uomini di buona volontà che abbiano voglia di lavorare e di far lavorare, è più che una sfida.

Non so perché – ma in un’italietta di imprenditori con il pannolone fin dai 40 anni, una corte dei miracoli di manager da bagaglino strapagati per nulla e di politici senza midollo – uno così o è un marziano o è un eroe. A novantanni. Viva Vichi.

di Giuseppe Cadeddu