Breve storia del lavoro in Italia
Breve storia delle riforme del lavoro degli ultimi trent’anni, ad usum delphini.
Dagli anni novanta, i governi, tanto di centro destra che di centro sinistra, hanno introdotto diversi cambiamenti al mercato del lavoro, in nome della competitività e della piena occupazione giovanile, ma nei fatti tutte le riforme sono strettamente legate alla visione secondo cui il lavoro è una merce da scambiare sul mercato. Termini come pensione di anzianità e retributiva, liquidazione, CCNL, contratto a tempo indeterminato e reintegro del lavoratore hanno perso progressivamente significato a favore di parole come flessibilità in entrata e uscita, deregolamentazione, precarietà, collocamento privato e libertà di contrattazione fra il datore di lavoro e il lavoratore.
Nel 1995(legge 355/1995) il passaggio del sistema pensionistico dal metodo retributivo(la pensione è calcolata in proporzione agli ultimi anni di salario) a quello contributivo(la pensione viene calcolata in funzione dei contributi versati durante l’arco della vita lavorativa) e l’istituzione della gestione separata dell’Inps è stato il primo passo verso lo smantellamento del modello di lavoro in essere dagli anni settanta grazie all’approccio bipartisan da parte delle forze politiche. La riforma contributiva su cui era inciampato il governo Berlusconi, viene approvata senza problemi dal suo successore Lamberto Dini, sostenuto da una maggioranza molto ampia di centrodestra e di centrosinistra.
Nel 1997(legge 196/1997) il Pacchetto Treu, ministro del lavoro sotto il primo governo Prodi, introduce le prime forme di flessibilità in entrata sdoganando il lavoro interinale, fino ad allora proibito, e il ritorno a modelli di apprendistato.
Nel 2003,a seguito del libro bianco sul mercato e sulle politiche del lavoro, il governo Berlusconi approva la legge Biagi(legge 30/2003) che introduce ancora più flessibilità in entrata sul mercato del lavoro, con la moltiplicazione delle modalità di lavoro atipico e l’ampliamento del ricorso al lavoro interinale. Sempre in tema di flessibilità, nello stesso anno, il governo Berlusconi liberalizza anche il lavoro dipendente a tempo determinato che con brevi pause può essere riproposto dal datore di lavoro senza limiti. Le forme atipiche si caratterizzano subito per i costi minori, data la mancanza di un minimo salariale e per i minori oneri contributivi,in gran parte a carico del lavoratore. Il governo Berlusconi, pur avviando il dibattito sull’abolizione dell’art. 18, non riesce nell’intento dell’eliminazione delle principali tutele per i lavoratori.
La flessibilità porta alla generazione mille euro, una massa di individui rassegnati al precariato a tempo indeterminato e al miraggio di pensioni lontane nel tempo e inferiori alla soglia di povertà.La crepa nella solidarietà intergenerazionale viene aggravata da un mercato del lavoro sempre più asfittico, bloccato anche dal ritorno degli anziani pensionati che possono utilizzare le modalità atipiche. Le imprese più grandi trovano un forte incentivo ad esodare i dipendenti più anziani per poi riassumerli come atipici, con un danno per il bilancio pubblico costretto a finanziarne parte dei costi.
Nel 2012e nel 2014si consumano gli ultimi due atti che eliminano le differenze del lavoro con qualunque altra merce. La legge Fornero(governo Monti) e il Jobs act(governo Renzi) rendono possibile ancor più flessibilità in uscita. La legge Fornero mette all’angolo le garanzie e la sicurezza del lavoro riducendo il costo dei licenziamenti, il Jobs act va ancora più in profondità eliminando le poche tutele rimanenti per i lavoratori fino all’eliminazione del reintegro per giusta causa.
La crisi degli ultimi due anni
Dal 2012 tutti gli indicatori occupazionali sono peggiorati, dalla legge Fornero la flessibilità in uscita con le minori garanzie per i dipendenti ha contribuito a ridurre l’occupazione e a far crescere la disoccupazione, senza nessun afflusso rilevante di manodopera. Il Jobs act invece di contrastare gli effetti della legge Fornero, ne ha amplificato la portata, e invece di abolire per decreto tante forme atipiche, ha preferito togliere le tutele a oltre 20 milioni di persone che dovranno anche sostenere con le proprie imposte gran parte degli incentivi di 8mila euro annuali per i contratti a tutele crescenti: chi pagherà il costo degli incentivi è la prima vittima del Jobs act. I dipendenti e i pensionati, provvedono infatti a oltre il 75% delle imposte sui redditi, data il reddito dichiarato da autonomi e imprenditori.
Ad oggi tutte le promesse delle riforme del lavoro non sono state mantenute, dalla flexicurity, mai realizzata dal ministro Fornero, ai sussidi universali ventilata a inizio legislatura e oggi sepolta fra le carte del Parlamento. I risultati finora si riassumono in un’occupazione più precaria, maggiore polarizzazione territoriale e l’esclusione di intere generazioni di giovani dal lavoro: meno giovani occupati, più giovani scoraggiati e un tasso di disoccupazione giovanile in vorticosa crescita.
di Gabriella Giudici