Come ti smonto il Neoliberismo in 23 mosse
Ha-Joon Chang è un economista coreano trapiantato in Gran Bretagna dove insegna a Cambridge. Mr Chang non è un anticapitalista ovviamente, è solo un economista eterodosso che si rifà alla tradizione istituzionale di scuola americana, quella per intenderci dei Veblen, Commons e Galbraith. La teoria economica sta attraversando un tale periodo di monismo ideologico che gli economisti si dividono in ortodossi (il mainstream più o meno neo-lib) ed eterodossi dove sono ammucchiati tutti gli altri, gli “eretici”. Questi eretici sono poi una categoria assai diversificata, includente tanto quelli della complessità-bioeconomisti-evoluzionisti-ecologisti, che i marxisti, i neo-keynesiani, le femministe, gli sraffiani, gli istituzionalisti ed a tratti, financo gli austriaci che porre fuori dalla tradizione liberale è assai arduo. Ma tant’è.
Chang scrive un libricino di facile lettura (ormai i libri non sono più scritti dagli autori ma dagli editor): 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, (Il Saggiatore, Milano, 2012) in cui introducendo per ognuno dei 23 capitoli tipiche tesi mainstream, le smonta una ad una.
1) Si comincia col libero mercato, il cui perimetro di libertà è sempre presente, non è mai libertà assoluta e che viene definito dal politico e non certo dall’economico. Sono stati governi a decretare prima libero e poi non più libero lo schiavismo, il commercio dell’oppio, il lavoro minorile. Poiché il concetto di libertà è quindi dato dal politico, i liberisti sono ideologi di un certo tipo di libertà relativa, quella che fa quadrare i conti degli interessi che sostengono.
2) Le aziende condotte dal principio del “valore per gli azionisti” non creano valore produttivo ma finanziario e spesso lo fanno tagliando dipendenti ed investimenti e strozzando fornitori. Jack Welch, ex CEO di GE che nel 1981 coniò il concetto di “shareholder value” pare che recentemente abbia mutato giudizio definendola “l’idea più stupida del mondo”.
3) I lavoratori non vengono pagati per il loro valore assoluto, ma relativamente alle cornici di contesto delle singole economie-paese. Pensare di mettere tutti i lavoratori in uno stesso mercato planetario è una truffa. Un guidatore di autobus svedese ha un salario 50 volte superiore a quello di un collega indiano quando semmai l’indiano ha ben più capacità visto che deve muoversi tra carretti, pedoni indisciplinati, animali e biciclette. In realtà agisce un potente sbarramento, di nuovo politico, un protezionismo del lavoro agito tramite barriere all’immigrazione che nessun liberale si sogna di rimuovere. Così, “produttività” è un concetto sistemico, quindi economico-nazionale, non certo dipendente dal singolo individuo e dalla sua “flessibilità”.
4) La quarta tesi è ad effetto: la lavatrice ha cambiato il mondo più di internet. Chang picchia duro su uno di quei topos con i quali si costruisce la nostra visione del mondo. L’economia dell’immateriale è stata una falsa promessa, un fenomeno di ben più misurata significanza rispetto a quanto si vada ripetendo nei mantra post moderni.
5) Il presupposto dell’egoismo razionale dal quale discende l’intera teoria economica quantificabile, individualista, razionale è del tutto arbitrario. L’individuo asociale è un disturbato e così la teoria economica che da questo patologico presupposto discende (autistic economy).
6) La stabilità economica che dipende dall’azzeramento dell’inflazione, quindi dalla gestione della moneta, serve solo come protezione di chi ha ingenti capitali da investire. Nel dopoguerra con inflazione si cresceva più del doppio degli ultimi trent’anni senza inflazione. Una moderata inflazione addirittura potrebbe fare bene alla crescita e comunque è certo che zero inflazione non porta di per sé alcuna crescita correlata.
7) Le politiche liberiste sul commercio internazionale rendono più ricchi i paesi ricchi e non certo i paesi poveri. Riecheggiano qui le osservazioni dell’economista tedesco Friedrich List (1789-1846). Tra l’altro, gli Stati Uniti furono protezionisti almeno dal 1830 al 1940 e la Gran Bretagna dal 1720 al 1850. Si può così notare come la furia libero mercatistica emerga solo quando il paese a capitalismo egemone sull’intero sistema-mondo, inizia la sua fase più prettamente imperiale. La libertà allora è quella dell’agente imperiale che “deve” poter entrare nella tua economia per eterodirigerla a sua convenienza.
8) La transnazionalità globalizzata va ridimensionata. Vere e proprie imprese transnazionali sono pochissime, per lo più sono imprese nazionali con prospezione internazionale. Nei servizi poi questo radicamento nazionale si accentua data l’impossibilità di prestare servizi a distanza. La maggior parte degli investimenti esteri comprano aziende già esistenti (per ristrutturarle e rivenderle ) e non ne creano di nuove e molte aziende manifatturiere svolgono sull’estero soprattutto attività finanziaria e non produttiva.
9) Anche la favola dell’era post-industriale va ridimensionata. Spesso l’industria contribuisce al PIL meno che in passato perché le attività dei servizi hanno un valore più alto, anche in ragione dell’aumento di produttività che è più marcato proprio nelle attività industriali. Outsourcing e riclassificazioni di attività prima conteggiate come manifattura alterano le statistiche. Diminuzione dell’industria inoltre provoca dipendenza, sbilancia la bilancia dei pagamenti, depotenzia le possibilità di crescita e deprime l’occupazione. L’unica vera economia post industriale è quella delle Seychelles.
10) Gli Stati Uniti non hanno il tenore di vita più alto del mondo. Molto dipende da come si effettuano conteggi e comparazioni ma empiricamente un paese con tra i più alti indici di diseguaglianza, criminalità, ore lavorate (quindi mancanza di tempo libero), vita meno lunga e maggiore mortalità infantile non si può dire un paese felice.
11) Non esiste alcuna ragione strutturale che condanna l’Africa al sottosviluppo. La mancanza di possibilità al cambiamento è dovuta per lo più dall’ingerenza occidentale che continua a condizionare per sfruttare, le immense ricchezze del continente. Il dato peggiorativo proviene proprio dalla dissennata applicazione coatta di politiche di libero mercato e di programmi di aggiustamento strutturale imposti da Fmi e WB.
12) Anche l’assunto per il quale la capacità di intervento dello stato sulla complessità del mercato sarebbe impedita da un velo d’ignoranza è falso. L’autore che è coreano, riporta proprio casi del suo paese che è passato da economia primitiva ad economia di punta grazie ad un strategia coordinata in cui c’è la visibilissima mano dello stato. Così per Giappone, Francia ed anche se non lo dicono gli stessi Stati Uniti per quanto attiene alle tecnologie dell’informazione, biotecnologia, aerospazio. Altresì casi come Windows Vista o Nokia N-Gage dimostrano possibili errori macroscopici anche da parte del mercato. Di fronte all’errore, stato e mercato quantomeno si equivalgono.
13) È qui la volta del famigerato “trickle down” ovvero quella irrazionale convinzione per la quale facendo i ricchi sempre più ricchi poi la ricchezza di questi “colerebbe” sugli strati inferiori tramite investimenti che producono poi crescita e quindi ricchezza per tutti. Anche qui si possono leggere dati empirici del tutto contrari comparando il trentennio post bellico redistributivo e crescista con il trentennio neoliberale, che fa corrispondere bassi e stentati livelli di crescita a fronte di una impennata degli indici di diseguaglianza. Ma anche il senso comune può soccorrerci. Un milione in più ad un miliardario diventa proprietà accumulata o investimento che date le caratteristiche degli attuali mercati beneficerà un altro sistema paese. Cento euro di più ad un metalmeccanico diventano consumo, il consumo chiama produzione che chiama occupazione e il tutto fa crescita e circolazione della ricchezza.
14) Gli esorbitanti stipendi dei top manager non sono fenomeni spontanei del mercato. Essi sono determinati in buona parte proprio dal potere che questi top manager hanno assunto, potere di autodeterminare il proprio stipendio. Questo è schizzato a ordini di centinaia di volte quello dei sottoposti e negli USA a tre, quattro volte quello degli omologhi europei o giapponesi.
15) Nei paesi più poveri non è vero che manchi intraprendenza, anzi ce ne è sicuramente di più di quanta ce ne sia in Occidente proprio perché maggiore è la richiesta di arte di arrangiarsi. Altresì la figura dell’eroe individuale che con la propria forza di volontà riesce ad emergere, a fabbricare il proprio destino è pura letteratura. Senza politiche di contesto, infrastrutture, legislazioni, sistemi complessi spesso promossi da una autorità statale, non c’è alcuna possibilità di far crescere ed affermare un’impresa.
16) Il presupposto dell’iper-razionalità delle scelte economiche individuali, il presupposto che regge come “se”, l’”allora” dell’intera presunta scienza economica è palesemente inconsistente. La nostra razionalità è assai limitata, condizionata, agita entro grandi semplificazioni di complessità e routine fideistiche ed abitudinarie senza le quali non potremmo vivere. Viviamo immersi in oceani di incertezza e non abbiamo alcuna possibilità di fare calcoli neanche probabilistici del rischio effettivo.
17) Altresì non esiste alcuna correlazione provata tra il livello medio di istruzione generale di un paese ed il suo successo economico. Molte attività meccanizzate o informatizzate addirittura richiedono solo mansueti esecutori. Le materie di insegnamento servono ad altro che non ad aumentare la produttività e l’inflazione di “alti studi” non fa che rendere maggiormente classista l’entrata nel mondo di quei lavori a maggiori opportunità. La Svizzera è uno dei paesi più ricchi del pianeta ed ha il tasso d’immatricolazione universitaria più basso tra i paesi sviluppati. Da buon istituzionalista, Chang rimarca l’importanza di condizioni di contesto per creare benessere economico, condizioni alla portata di istituzioni collettive, tra cui lo stato.
18) Gli interessi dell’imprenditori privata non coincidono sempre con quelli della nazione. Gli interessi della nazione debbono essere promossi dal governo, cioè dallo stato, anche come regolamento di contesto nell’interesse stesso dell’imprenditoria privata.
19) L’ostracismo alla pianificazione in economia non è totalmente giustificato anche perché anche le cosiddette economie di mercato hanno parti abbondantemente pianificate. Certo la totale pianificazione centralizzata, soprattutto all’evolversi ipercomplesso delle nostre economie fallisce, ma la pianificazione dei contesti o “pianificazione indicativa” è stata ampiamente praticata con successo dalla Francia, alla Finlandia, Norvegia, Austria, Giappone, Corea, Taiwan, così le politiche economiche di settore e la politica industriale in particolare. Esiste ancora intrapresa economica statalizzata e il settore della ricerca e sviluppo è totalmente supportato negli Stati Uniti d’America. Così le aziende, tanto più grandi sono tanto maggiore è la loro pianificazione pluriennale, con grande articolazione di strategie. Così per i paesi, più grandi e diversificati sono più controllano ed agiscono in favore della propria economia.
20) L’uguaglianza delle opportunità è nulla se non c’è uguaglianza delle possibilità (il vecchio dibattito tra “liberta da” e “libertà di”).
21) Lo stato sociale aiuta ad assumersi rischi ed assumendosi i rischi del cambiamento la società è più dinamica ed aperta. Le automobili più veloci hanno anche i migliori impianti frenanti. Questo è un dato solido e concreto che si può desumere dalla comparazione tra indici di spesa sociale e crescita del PIL a livello delle economia più sviluppate.
22) Tra mercati finanziari ed economia reale c’è una asimmetria nei tempi. Il capitale impaziente della speculazione ha una logica diversa dal capitale paziente che si richiede nello sviluppo di una iniziativa economica reale. Occorre render più difficili le acquisizioni ostili, vietare le vendite allo scoperto, aumentare gli obblighi di margini, introdurre restrizioni alla libera circolazione dei capitali. Occorre cioè domare e limitare la finanza la cui totale libertà è altamente dannosa.
23) Minore crescita, maggiore instabilità economica, maggiore diseguaglianza, crisi ripetute e crollo del 2008. Questo il pacchetto dei risultati dell’economia liberista. Di contro, l’intero pacchetto della formidabile crescita orientale degli ultimi anni è stata fatta in totale assenza di economisti. Gli economisti liberisti non solo hanno fatto cattiva economia ma soprattutto hanno svolto un ruolo altamente ideologico basato sulla sistematica inversione del buonsenso: l’ineguaglianza fa bene, le tecnologie sono tutto, l’incertezza esistenziale è propedeutica alla crescita, svendere la propria industria fa bene, non bisogna occuparsi di politica economica perché l’economia si autoregola, abbandoniamo lo stato ed abbandoniamoci al mercato, diamo più soldi ai ricchi, esaltiamo l’egoismo, distruggiamo la società. Un lungo delirio istituzionalizzato.
“E’ tempo di sentirsi a disagio” chiude Mr Chang. Si riferisce al suo ambiente quello dell’accademia mainstream che invita senza troppi compimenti a pentirsi e ravvedersi, ma può essere un buon consiglio anche per chi ne è fuori.
Si tratta di rimettere sul tavolo i sistemi delle idee economiche per giungere a nuove sintesi avanzate.
Marx, Keynes, Minsky, ma anche List, Kaldor, Hirschmann, Simon, insomma una sorta di unione degli eterodossi alla ricerca della fondazione di un nuovo paradigma economico, perché per quello vigente sta giungendo “la fine dei tempi”.
O almeno così speriamo.
di C. Wolff