Dieci tesi contro il capitalismo predatorio
I
Il capitalismo contemporaneo è la forma estrema dello stesso, ovvero il capitalismo nella sua fase discendente, ancora inedita nei suoi effetti complessivi. La «servitù del debito» è uno dei suoi modi di oppressione e controllo delle masse, ma non il solo.
Si può a ragione parlare di «capitalismo predatorio» o di «Capitalismo assoluto» (Preve), anche se entrambe le definizioni paiono ancora insufficienti per coglierne le caratteristiche dominanti. Il dibattito attuale (considero come posizioni interessanti e opposte quelle di Dardot/Laval, di Bidet, di Lazzarato, Negri, Zizek, Badiou, di Aglietta e di Lévy) stenta a trovare una strategia di uscita dal dominio del capitale finanziario, per ragioni teoriche e ideologiche. Si fanno delle analisi convincenti- anche se non sempre-, ma quello che risulta pressoché impossibile (forse soprattutto perché, in generale, non si tiene conto di Lenin) è trovare un modo per opporsi efficacemente alla retorica intransigente della classe dominante.
La strategia dei capitalisti sembra invece molto più efficace nello spuntare le armi dei movimenti che vi si oppongono. La constante criminalizzazione di qualsiasi forma di opposizione e l’affermazione constante e martellante dell’assenza di alternative lasciano poco spazio ai movimenti2.
Un’altra caratteristica del capitalismo predatorio è la sua connivenza con le mafie mondiali, che ormai spesso appare assolutamente evidente, sebbene negata dai media di regime.
I metodi dei «pirati legalizzati» e dei «pirati fuorilegge» spesso coincidono, sia nei modi che nei risultati ottenuti. Il velo fuorviante della retorica dei “diritti umani” serve solo a occultare il fatto che di essi è stato fatto strame.
II
La sua strategia dominante, sul piano discorsivo, è quella del «disinnesco».
Dopo aver sapientemente distrutto la logica del discorso negli ultimi venticinque anni, l’ideologia dominante è in grado di imporre un linguaggio fatto di slogan incoerenti e di parole d’ordine indiscutibili (v. Marcuse). In compenso, i discorsi coerenti delle opposizioni vengono costantemente rifiutati in nome degli slogan ripetuti fino alla nausea e la loro forza imbrigliata all’interno di controargomentazioni speciose e sofistiche; un’altra forma di «disinnesco» consiste nello svuotamento sistematico del vocabolario – l’esempio più chiaro ed immediato riguarda la parola «democrazia», svuotata di senso e usata per indicare invece una forma di “dittatura” appena velata3. Viviamo immersi in una sorta di «brodo di coltura» di una LTI-come direbbe V. Klemperer4 –, forse meno “militaresca” di quella del Terzo Reich, ma non meno inquietante. Il processo di svuotamento della capacità di argomentare è giunto a un punto tale che oggi è estremamente difficile essere compresi da un pubblico di media cultura. Chi oggi neghi tutto questo, va detto a chiare lettere, è da considerare un complice del «capitalismo predatorio».
III
Una delle caratteristiche più inquietanti del pensiero neoliberista è quella della sistematica distruzione della cultura umanistica- e dell’istruzione pubblica.
La nuova scuola del neoliberismo è una scuola delle competenze e della formazione continua da una parte, della concorrenza spietata dall’altra: non si tratta di formare le future generazioni, ma di asservirle all’unica ideologia ammessa, quella del profitto per pochi e della servitù dei molti.
Individualismo e proprietà privata sono i due dogmi ai quali il sistema educativo deve essere sottomesso senza discussioni. Bologna, Lisbona e Europa 2030 sono le linee guida di questa spietata operazione. I dirigenti scolastici, le pedine, consapevoli o meno, indispensabili per attuarle. Come afferma Christian Laval in un volume recente5, «Sois stage et tais-toi!». Formazione continua, dunque, e superficiale. Niente di più vicino di questo alla strategia neoliberista.
Lo stesso si può dire dell’Università, con l’aggravante che in questo caso i costi di iscrizione sono aumentati e la qualità sta diminuendo anno dopo anno.
In Italia, il volano necessario a questa trasformazione è stato rappresentato, in larga misura, dai corsi di laurea in Scienze della Comunicazione: produzione di manodopera a basso costo e dequalificata per i call-centers (per lo più) e diplomificio per una minoranza relativamente competente pronta a servire gli interessi del capitalismo predatorio a un livello comunque medio-basso; in tutti i casi, strumento efficace per la «riduzione dei cervelli» – o comunque per una trasformazione regressiva dei medesimi.
IV
I media ormai sono ridotti ad altoparlanti fumosi e in malafededell’ideologia neoliberale dominante.
Ovvero, sono solo agit-prop! Ripetizione ossessiva di ritornelli – crisi, tagli, riduzioni, deficit, spread, ecc. Con la triste coorte di presentatori, puttane, ministri e giornalisti servi a celebrare l’indegno spettacolo dell’autorappresentazione di un’oligarchia marcia e corrotta, che vuole pompare senza fine risorse e denaro dal popolo (e dalla classe media). Come diceva Saint-Just: «chi non vuole la virtù, vuole la corruzione!».
Ce ne sarebbe più che abbastanza per una rivoluzione; per ora, però, non è così. Vale ancora la seduzione del potere economico sovraesposto sui media di regime e funziona l’arte di «ridurre i cervelli». Il nemico è ancora troppo invidiabile per essere odiato davvero; nonostante si mostri ormai chiaramente per quello che è, ovvero turpe e disprezzabile. Monti o Tre-monti, nel caso italiano, fa poca differenza.
Tutti in fila per tre, ma fino a quando?
I media rappresentano attualmente, per la stragrande maggioranza, un’insensata commedia che oscilla tra il grand macabre e il vaudeville, con qualche tocco burlesque, quando ve n’è la necessità.
Comparsate di presunti esperti, politici ignoranti o cinici fino al disprezzo dei cittadini, ruffiani ecc., tutti pronti per il carosello quotidiano della società dello spettacolo «integrato» (Debord).
Le prossime elezioni italiane, un teatrino infame in cui il voto non è più un diritto, ma solo l’esercizio passivo di ratificazione dell’esistente attraverso una delega in bianco. È triste affermarlo, ma è proprio così – grande «rischio Weimar», anche se le conseguenze saranno quasi sicuramente diverse.
V
Il carattere predatorio del neoliberismo appare evidente e soprattutto difficilmente arrestabile, a meno che non si decida di opporsi alla predazione indiscriminata con tutte le forze a disposizione. Questo significa abbandonare la cultura del compromesso e della mediazione a tutti i costi, che ha bloccato negli ultimi vent’anni l’azione delle forze politiche- e sociali- di sinistra.
Si è potuto constatare che ormai la maggior parte dei gruppi politici è al servizio di gruppi di lobbisti senza scrupoli, in grado di condizionare l’approvazione o l’abrogazione delle leggi nei parlamenti europei. L’opposizione dall’interno è divenuta molto difficile se non impossibile.
Lo spirito predatorio si è ormai impadronito delle istituzioni – naturalmente vi sono casi – abbastanza rari – di dissenso. Per questo non è più possibile essere riformisti senza cadere nell’accettazione acritica dei meccanismi perversi del neoliberismo. La «disobbedienza civile», fuori dalle sedi istituzionali, sembra l’unica arma a disposizione per fronteggiare la corruzione e lo sfruttamento illimitati.
Debito, dunque – sono i poveri a pagare per le banche! Assurdità di un sistema che si avvita su se stesso. Economia del ricatto. Criminalità ed economia neoliberale: spovrapposizioni continue e intrecci inestricabili. Per questo è necessario discriminare senza ambiguità: le colpe ricadono tutte—e intendo dire proprio tutte–sul capitalismo predatorio; esso deve essere identificato come «il» nemico da combattere per evitare il definitivo tracollo della democrazia6.
Le politiche del «male minore» non hanno più alcun senso quando di fronte ci sono degli interlocutori che si sono posti «al di sopra della legge»: associazione a delinquere (le parole pesano e contano!) di privilegiati dediti escusivamente ad incrementare a qualsiasi costo le proprie entrate: sicurezza, controllo poliziesco e sfruttamento fino al suicidio dei lavoratori.
Le politiche della sinistra radicale si sono fin qui distinte per la mancanza di strategie efficaci e per una grande incapacità di leggere il presente – con Marx o senza Marx. Fermi al secolo passato, i suoi Readers non hanno saputo comprendere l’evoluzione dell’economia (se non in modo molto parziale) e hanno sinora perso tutte le occasioni per cercare di cambiare il corso degli eventi. I movimenti sono andati molto oltre nella comprensione del capitalismo predatorio, ma non hanno un’organizzazione efficace.
VI
Governance I
L’«Economic governance» è uno degli strumenti più devastanti per imporre l’ideologia neoliberista.
Partiamo da alcune considerazioni di Toni Negri, svolte in un saggio recente:
Ormai, quando si parla di costituzione europea, si parla essenzialmente di economic governance, e quando si parla di governance economica, spesso si traduce sostantivamente il concetto nel tedesco Ordo-liberalismus (ci è stato detto che questa traduzione si è data anche in documenti ufficiali). Vale a dire in una autoritaria “economia sociale di mercato” che, non a caso, sotto la pressione dei mercati, ha perduto ogni dimensione sociale e riformista per esaltare al massimo quella autoritaria ed ordinativa. Prodotto da una scuola che, assumendo diverse – e spesso inquietanti – figure politiche, si prolunga e si trasforma dagli anni ’20 ad oggi: essa domina gli attuali processi costituenti europei. Stabilità dei prezzi, regolazione repressiva di ogni deficit budgetario inappropriato, unione monetaria separata dall’unione politica, sono diventati principi cui attenersi – con alcune conseguenze dissolutive di ogni pur formale regola democratica. Il controllo e la supervisione burocratica dei bilanci sono infatti privi di ogni legittimazione democratica (non solo delle istituzioni nazionali ma anche di quelle comunitarie); gli interventi regolatori sono di volta in volta individualizzati fuori da ogni norma generale – il carattere di giustizia dell’azione comunitaria è del tutto svuotato; e, in terzo luogo, le politiche europee di regolazione sociale, distributive e compensatorie, risultano effettivamente dissolte. Per dirla con Jörges, nella crisi l’Europa è passata da una costruzione giurisdizionale ad una costituzione autoritaria e da un deficit di democrazia ad un default democratico7.
Il deficit di legittimità caratterizza, in generale, l’azione delle istituzioni europee (e dei singoli stati dell’Unione, purtroppo!), ormai divenute sistemi autonomi, assolutamente lontani dai popoli e fuori da ogni regola. «De-regulation» e asservimento ai dettami delle multinazionali, questo è l’unico programma da seguire. Non condivido del tutto le testi di Negri e di C. Vercellone sul «Capitalismo finanziario», ma certamente le pressioni dei mercati sulle scelte dei governi sono enormi e sempre più pervasive; nonostante ciò, il “capitalismo predatorio” non è soltanto di carattere finanziario—si vedano, ad esempio, le guerre imperialiste per il controllo delle risorse in Africa e in Medio Oriente.
Come affermano Laval e Dardot,
Per contrasto, il momento neoliberale è caratterizzato da un’omogeneizzazione del discorso sull’uomo a partire dalla figura dell’impresa. Questa nuova forma di soggettività opera un’unificazione senza precedenti della forme plurali di soggettività che la democrazia liberale lasciava sussistere e delle quali si sapeva servire all’occorrenza per meglio consolidare la sua esistenza.8
Il capitalismo predatorio si caratterizza quindi per la soppressione di quel pluralismo che tuttavia sussisteva nelle democrazie liberali del secondo dopoguerra: quello di cui c’è bisogno è invece di un controllo “totale” sull’individuo e di una sua altrettanto totale «depersonalizzazione». Timore e speranza, sapientemente dosati e istituzionalizzati a partire dalla assurda regolamentazione del mercato del lavoro.
VII
Sul potere costituente.
Le tesi di Hardt-Negri sul potere costituente vanno riviste abbandonando il concetto di «moltitudini», troppo indefinito. Non sono le moltitudini a poter dare scacco al neoliberalismo.
Non riesco ad essere d’accordo con Negri quando affida il potere costituente alla “moltitudine”; rimane per me un concetto troppo astratto e vago, direi. Lasciare lo spazio per un cambiamento al solo «desiderio costituente», alla «ricerca della felicità» – seppur intesa in un senso latamente spinoziano – mi pare davvero un’ingenuità teorica che mal si accompagna alle sottili analisi negriane della governance. Davvero, ci servono altre definizioni, ben più pregnanti e concrete. Per parte mia ripartirei dal concetto di classe, andando certo ben oltre quello classico marxista. Tuttavia, mi sembra ancora ineludibile partire da lí, per riformularne i punti essenziali. Non se ne può fare a meno, per interpretare questa nuova fase del capitalismo9. In questo senso, non mi sembra inutile ritornare a leggere Lenin e Lukács, con spirito critico, ovviamente. La «lotta di classe» è estremamente attuale, anche se ha assunto caratteristiche diverse, contorni meno netti e al centro non c’è più la classe operaia in senso Stretto, ma un universo molto più sfaccettato ( precariato, migranti, marginalità nuove).
VIII
Governance II
L’aspetto più propriamente giuridico della Governace globale è forse quello più inquietante: attraverso processi di giuridificazione che saltano a pié pari le Costituzioni nazionali, le multinazionali impongono spietatamente i loro interessi.
a) Sono d’accordo con M. Lazzarato quando afferma che il termine governance nella neolingua del capitalismo predatorio significa in realtà «comando» – dispotico, aggiungo io (v. Lazzarato, 2011, p. 27). Borrelli (2010) sottolinea l’importanza del concetto di responsabilità personale; la «democrazia efficace» si basa appunto su questo e sul concetto di governance. Struttura reticolare di governance. Chi comanda, ovviamente, sono le élites, non il popolo. Governo dei comportamenti e dei corpi. Psicopotere? Prendere su di sé i rischi come ingiunzione. Teubner ci insegna che i processi di «ibridazione del diritto» possono portare alla sovversione dell’ordine giuridico tradizionale.10
b) Ascesi della “performance” e controllo totale.
Come hanno rilevato Dardot e Laval,
Tutti questi esercizi pratici di trasformazione di sé tendono a trasportare tutto il peso della complessità e della competizione sul solo individuo. I «manager dell’anima», seguendo un’espressione di Lacan ripresa da Valérie Brunel, introducono una nuova forma di «governance» che consiste nel guidare i soggetti facendo loro assumere pienamente l’attesa di un certo comportamento e di una certa forma di soggettività sul lavoro.11
Qui la questione dominate è quella del «lavoro su di sé» allo scopo di adattarsi alle regole del management e di essere disposti a una continua trasformazione e ad un continuo riposizionamento di sé. Da cui segue la “liquidità” dei legami sociali e personali, fino alla loro assoluta intercambiabilità.
c) Giuridificazione bottom-up.
Quello che è accaduto e accade è che i processi di giuridificazione e di «costituzionalizzazione» seguono una logica bottom-up e indipendente dalla costituzioni nazionali. Si legifera sempre di più ad hoc, attraverso processi orizzontali che conferiscono valore giuridico superiore a procedimenti transazionali privati che riguardano gli uffici giuridici delle multinazionali e non si confrontano con le Costituzioni dei singoli paesi.
IX
Biopolitica e biopotere
Pur accettando solo parzialmente la prospettiva foucaultiana, sosteniamo che la figura dominante nel mondo tardocapitalista si quella dello sportivo e dell’uomo in continua lotta con se stesso per migliorare le sue performances – una sorta di «ultimo uomo». Forse, nietzscheanamente «il più brutto».
Produzione dell’uomo “performante” e assolutamente responsabile in prima persona di ciò che fa, al lavoro e nel tempo libero—che non è tale, in quanto interamente sussunto nei meccanismi produttivi. Costruzione dell’uomo indebitato- esposizione, ricatto. (V. Deleuze, Cours, 1971-72–73, citati da Lazzarato12). Il tema dell’assenza della mediazione nell’uso degli strumenti elettronici è fondamentale: qui Lazzarato segue Deleuze quasi alla lettera. Un altro punto, legato al precedente, concerne l’imposizione del pareggio di bilancio nelle costituzioni dei paesi europei; questo provvedimento, a breve, aumenterà in modo esponenziale l’esposizione delle famiglie, impoverendole ulteriormente fino a livelli impensabili prima d’ora. Le destre e le sinistre europee non vogliono vedere la gravità del problema e insistono su questa strada, probabilmente fino ad arrivare al collasso dell’intero sistema. Come sottolinea Christian Marazzi in un articolo recente,
Però il problema, per come lo vedo io, è che siamo in una situazione dentro la quale siamo in un qualche modo costretti a passare attraverso una crisi feroce che è implicita nel funzionamento stesso di questo euro. Per questo mi sembra fondamentale, all’interno delle lotte, porre le questioni da una parte di una resistenza a tutto ciò che ha a che fare con le misure di austerità, una resistenza sul fronte del salario, una resistenza sul fronte del reddito nelle sue forme di reddito di base, ecc. Però allo stesso tempo sono parecchio pessimista perché non riesco a vedere fra l’altro una forza per portare effettivamente queste rivendicazioni di tipo riformista al giusto livello sul quale andrebbero poste. Mi piacerebbe che ci si muovesse in questa direzione, vedo però prima di tutto questo scenario di grande crisi dell’Europa e un ritardo preoccupante da parte del movimento operaio, ma del movimento critico in generale nell’elaborare delle pratiche di lotta, nel costruire dei fronti di lotta tali da poter in qualche modo orientare questa crisi. La mia posizione sicuramente è una posizione che esprime un disagio, forse sono troppo dentro a quella che è l’evoluzione e l’involuzione quotidiana dei mercati per vedere un esito o un percorso diverso da quello di rottura ma sta di fatto che questa impossibilità di tenere l’euro, proprio per la sua stessa architettura, mi sembra che sia la questione che dobbiamo porci per avere un approccio che sia col tempo realista ma allo stesso tempo consapevole delle difficoltà che abbiamo di fronte nella mobilitazione a livello europeo. Per quanto riguarda il pareggio di bilancio, penso che sia l’anticamera del nazismo. Questa è una battuta, ma non del tutto, perché costituzionalizzare il pareggio di bilancio significa mettersi nella condizione di non poter far fronte a delle situazioni che tra l’altro nel capitalismo finanziario alla Minksy sono assolutamente prevedibili nella loro imprevedibilità. Una crisi, o una catastrofe naturale, pone la questione della rigidità, della gabbia d’acciaio che ci costruiamo noi stessi e che rende estremamente difficile perseguire delle operazioni di reazione, di risposta contingenti a delle situazioni di crisi. È veramente un errore questa cosa, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ed è una cosa di cui vedremo le conseguenze abbastanza presto. ( Christian Marazzi, “L’Euro non come moneta unica ma come moneta comune”, in www.sinistrainrete.it)
Altro che la «gabbia d’acciaio» weberiana: qui siamo di fronte a un processo di espropriazione dell’autorità degli Stati nazionali che non ha precedenti! Le considerazioni di Lazzarato sull’“uomo indebitato” andrebbero implementate pertanto da un’ampia considerazione del regime neoliberista e delle sue politiche, su come il capitalismo finanziario abbia poco a poco eroso lo Stato sociale attraverso meccanismi economici ben determinati e ben descritti da Marazzi e da Bellofiore. Su questo punto conto di tornare in un articolo successivo.13Alla fine, sembra che il controllo biopolitico abbia raggiunto almeno uno dei suoi scopi: offuscare le menti al punto che coloro che sono stati gettati nella miseria dal capitalismo predatorio continuano a sperare di potersi “rifare” accettando per ora le politiche di austerità imposte dall’Europa. Una parte dei cittadini ha però compreso come stanno le cose e si è organizzata, nonostante le mille difficoltà a cui ha dovuto e dovrà far fronte. Non si tratta di moltitudine, ma di lotta popolare, anche se in un senso nuovo.14 Intendiamo con «lotta popolare» qualcosa di Molto simile al «movimentismo» degli anni settanta, ma adattato al carattere diffuso delle lotte attuali—sfrattati, studenti, migranti, precari, operai, ecc. Insisto: uscendo dall’immobilismo a cui sismo condannati a causa della “moralizzazione” delle lotte.
X
Uscirne ( ma come?)
L’uscita dall’ideologia neoliberale non sarà indolore, ma richiederà un colossale sforzo di cambiare il nostro mondo di pensare e di agire.
L’estrema difficoltà di uscire dalla fase attuale del capitalismo è determinata dal fatto che abbiamo assistito ad una potente colonizzazione delle forme di pensare avvenuta soprattutto tra il 1989 e il 2001, tale che oggi molti oppositori del neoliberismo non si accorgono di pensare come i loro avversari. L’etica della performance e della responsabilità individuale ha determinato e determina la scarsissima reattività della sinistra-anche antagonista- di fronte alle politiche aggressive dei governi occidentali. Se a questo aggiungiamo l’accettazione passiva di un’apologia assurda della non-violenza (che non ha nulla a che vedere con Gandhi), vedremo che per poter far fronte alle politiche sempre più assurde della Troika è necessario cambiare il modo di pensare a 360 gradi. Solo un’opposizione radicale, senza remore e senza troppi distinguo ai governi attuali potrà portare, nel tempo, a determinare un cambiamento significativo, politico e sociale insieme. L’ipocrisia del tardo capitalismo è ormai assolutamente inaccettabile. Per questo pensiamo che sia fondamentale rileggere Marx per capire il presente e non lasciarsi incantare dalle varie sirene che impediscono qualsiasi cambiamento decisivo. Non sembra però che i moventi sociali, almeno in Italia, riescano a premere sul governo e sul potere finanziario per spingerli verso un cambiamento di rotta. La resistenza è ancora forte e le collusioni molteplici. Gli scandali finanziari non sembrano, da soli, incrinare il sistema: seguendo ancora Teubner, il reticolo di interessi è troppo complesso per essere attaccato di fronte. L’incertezza regna, dunque. Ma solo se ci si libererà delle scorie dei fallimenti dello scorso ventennio – non solo berlusconiano, ahimé – sarà possibile concepire delle strategie efficaci. Alcune strade sono state abbozzate in questo intervento, altre restano da pensare.
Coda
Qualche parola, per finire, in riferimento alla situazione che si sta delinenado nelle ultime settimane in Italia e in Europa: sembra che il «capitalismo predatorio» stia accelerando il processo di distruzione delle economie dei paesi dell’Europa del sud, attraverso la deleteria combinazione di assurde politiche di austerità (Germania) e di un’accentuazione dei movimenti speculativi. Per questo mi piace definire questo capitalismo come profondamente nichilista
e votato alla sparizione; il problema è che intende trasportare i popoli europei nell’abisso, e senza nessuno sconto. Se ho parlato di «Rischio Weimar» è dunque a ragion veduta. Le condizioni politiche ed economiche sono diverse, ma le conseguenze possono essere altrettanto letali, dato che non si vede all’orizzonte una forza politica capace di mettere in questione i rapporti di forza attuali. Ma non è detta l’ultima parola: a volte le stesse forze negative possono creare le condizioni per la propria sconfitta – inattesa. Basta leggere la realtà con lenti diverse ed abbandonare il tono puramente «indignato» delle proteste degli ultimi anni.
di Jean-Claude Lévêque
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Note
1 Uso le due espressioni «Capitalismo predatorio» e «Neoliberismo» per connotare due aspetti, economico il primo, ideologico-politico il secondo, di uno stesso fenomeno.
2 Soprattutto se i movimenti non elaborano una strategia complessiva di opposizione al capitalismo predatorio, cosa che, almeno in Italia, non hanno saputo fare finora. Interessante questa messa a punto, breve ma incisiva, sulle “strategie” del sistema bancario” tra la fine degli anni ottanta e la metà degli anni novanta: «Quello che non troverete nella stampa di questi giorni, nemmeno su Il fatto quotidiano che strilla tanto (grazie alle carte passategli si suppone dallo stesso Profumo), è l’indagine sull’origine del tumore che affetta l’intero sistema bancario italiano (ed europeo) e di cui quella del Mps è solo una delle metastasi. Ci riferiamo al colossale processo di privatizzazioni e concentrazioni degli anni ’90 e che culminò nel 1998 nella nascita, ad esempio, dei due mostri Unicredit e Banca Intesa. Un processo che cambiò da cima a fondo l’architettura stessa del sistema economico e bancario italiano e che consistette nel passaggio delle banche da commerciali a banche d’affari, quindi non solo quotate in borsa ma oramai dedite alle scorribande predatorie sui mercati finanziari. Solo a patto di focalizzare questo colossale processo di privatizzazione-concentrazione-speculazione è possibile capire perché anche una banca come Mps si lanciò nella gara fraudolenta, viziata nativamente da trucchi di vario tipo e, quel che a noi preme sottolineare, voluta e avallata dai partiti politici e dai governi, sia di centro-sinistra che berlusconian-leghisti.Gli anni ’90 erano quelli che prepararono l’ingresso nell’Euro. Gli anni in cui l’Italia doveva adeguarsi agli standard previsti dai Trattati, implicanti il trasferimento della sovranità politica a Bruxelles e quella monetaria a Francoforte. Gli anni in cui prendeva definitivamente forma il regime oligarchico europeo incardinato nel predominio del sistema bancario e finanziario. Una delle tappe cruciali di questo processo di avvicinamento verso l’abisso globalizzato iniziò certamente nel 1981, col divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia. Ma ve ne fu una seconda, di portata altrettanto grande. Essa venne sancita il 30 luglio 1990, con la Legge Amato n. 218 e successivi decreti di attuazione – Primo Ministro Andreotti, coalizione di centro-sinistra Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli con Azeglio Ciampi a governatore della Banca d’Italia» (cito da MONTE DEI PASCHI: LE VERE ORIGINI E LE CAUSE DI UNO SCANDALO, di Moreno Pasquinelli, in “Sollevazione blogspot” del 24 gennaio 2013).
3 Questa forma di «dittatura velata» può essere considerata una sorta di «oligarchia finanziaria e militare» che ha già fatto strame del diritto in poco più di vent’anni. Come ha sottolineato di recente C. Preve, «[…] In quinto luogo, infine, l’ecumenismo culturale, lungi dall’essere progressista, emancipatore e di “sinistra” è soltanto la copertura culturale per conniventi e per allocchi di un nuovo capitalismo finanziario globalizzato che per rimuovere la generalizzazione del lavoro flessibile, temporaneo e precario deve promuovere la formazione di un nuovo esercito industriale di riserva multiculturale, multirazziale, multietnico, multireligioso, linguisticamente unificato (inglese operativo) e sessualmente omogeneizzato (omo ed etero al posto delle vecchie noiose famiglie borghesi). Tutto questo non ha assolutamente nulla a che fare con il vecchio concetto greco di ospitalità verso lo straniero (xenos) in cui lo straniero era bensì ospite, ma mai ci si sarebbe sognati di rinunciare alla propria identità culturale greca, di cui si era anzi non solo fieri ma fierissimi. Ultimamente questo è stato chiarito da un magistrale saggio di Luca Grecchi (uno dei più promettenti filosofi italiani contemporanei, ed appunto per questo silenziato ed ignorato dalla mafia mediatico-accademica al servizio delle oligarchie), che confuta con ricchi argomenti l’errata concezione dei greci come nazionalisti, sciovinisti e razzisti. I greci erano fieri della propria irripetibile identità religiosa, culturale e linguistica, e nello stesso tempo aperti al cosiddetto «diverso» (oggi trasformato in un inesistente Diverso per colpevolizzare la legittima difesa economica e culturale delle comunità).
La formula che tu utilizzi alla fine della tua domanda (la globalizzazione come universalizzazione degli egoismi) è particolarmente felice, perché suggerisce al lettore che abbia ancora voglia di pensare che l’universalizzazione degli individualismi acquisitivi (non importa se dal lato dell’Imprenditore o dal lato del Consumatore) universalizza soltanto l’individualismo acquisitivo stesso. È questo un ennesimo ossimoro (l’universalizzazione dell’individualismo), che non potrebbe però concretamente realizzarsi senza la perdita della stabilità del lavoro (l’individuo flessibile è il vero coronamento di ogni individualismo, perché porta lo sradicamento al suo punto più alto) e senza la distruzione delle vecchie comunità familiari e religiose in nome di nuove comunità provvisorie fittizie (la folla anonima dei centri commerciali, il concerto rock, ecc.).
L’antropologia sociale di questa nuova ed inedita universalizzazione dell’individualismo anomico deve ancora essere studiata, e non possiamo certamente aspettarci alcun aiuto dalle caste mediatiche ed universitarie. E tuttavia io credo nella natura umana, e quindi non credo nella sua manipolabilità infinita. Se la natura umana fosse infinitamente manipolabile, non ci sarebbero soggetti sociali capaci di tirarci fuori, né tanto meno futurismi tecnologici o ideologie del progresso. Per questo non bisogna chiedere aiuto all’ideologia, ma ad un rinnovamento filosofico. Ma dal momento che la tua terza domanda verte appunto su questo, svilupperò il mio discorso proprio nella mia terza prossima risposta»(C. Preve, «Rivolta delle ëlites e disfacimento del Capitalismo», Dialogo tra C. Preve e L.Tedeschi, in Italicum, 2011, qui citato da www.ariannaeditrice.it). Di Costanzo Preve mi permetto di citare l’utile Marx inattuale. Eredità e prospettiva, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
4 V. Klemperer, LTI , la lingua del Terzo Reich. Breviario di un filologo. Giuntina, Firenze 1998.
5 Ch. Laval et al., la nouvelle école capitaliste, ed. La Découverte, Paris 2011, soprattutto le prime 50 pp.. Il caso italiano è abbastanza diverso da quello francese, perché in Italia il progetto neoliberista si è accompagnato alla più assoluta cialtroneria e alla promozione sistematica dei peggiori – ma, ovviamente, più affine all’ideologia dominanante o, almeno, più disposti a collaborare con i suoi rappresentanti.
6 Su questo punto la bibliografia è miserrima: ci si arresta sempre un po’ prima di proporre una qualsiasi strategia per cambiare lo stato delle cose (eccezioni certo discutibili ma reali: C. Preve e G. La Grassa).
7 A. Negri, «A proposito di Costituzione e capitale finanziario», In www.sinistrainrete.it. Il volume di Lazzarato sull’ “uomo indebitato” è senza dubbio interessante, ma vi manca la base economica del ragionamento – almeno a mio avviso. Come scrive invece R. Bellofiore, “La incorporazione delle famiglie nel capitale finanziario e la riduzione della quota dei salari, insomma, hanno determinato trasformazioni ben concrete e radicali nella stessa struttura produttiva, aumentando la capacità produttiva inutilizzata. Il «nuovo capitalismo» è stato in grado di risolvere almeno temporaneamente e parzialmente questo problema, facendo sì che le imprese trovassero domanda e finanziamento, sia pure per il giro traverso dell’indebitamento privato delle famiglie che ha sostenuto un consumo sganciato dal reddito. Una sorta di «meccanismo unico» che ha reso impossibile separare finanza «cattiva» e economia reale «buona». Anche le considerazioni di Bellofiore sulla teoria di Minsky che «vede nello Stato l’offerente di un’occupazione di ultima istanza come sostengo ai consumi e (alla dignità) dei laboratorio», è senz’altro utile per provare a pensare un’alternativa al tardo capitalismo. Vedi il testo di R. Bellofiore, «L’ipotesi della instabilità finanziaria e il ‘nuovo’ capitalismo», on-line su www.storep.org/workshopsiena/Bellofiore1.pdf. Di R. Bellofiore vale la pena di leggere l’agile libretto La crisi capitalistica. La barbarie che avanza. Trieste, Asterios, 2012. E, come rileva A. Fumagalli, «Oggi, non si intravvede nulla di ciò. È oramai assodato che la governance capitalistica imposta dai mercati finanziari si è rivelata fallace, seppur dopo aver ottenuto potenti risultati nel plasmare e definire le nuove modalità di valorizzazione e le nuove forme di comando e gerarchia del bio-capitalismo cognitivo. Il triplice ruolo assunto dai mercati finanziari – ridefinizione continua dell’unità di misura del valore e finanziamento dell’attività d’investimento, assicuratore sociale della vita individualizzata come esito della finanziarizzazione, e conseguente privatizzazione, dei sistemi di welfare, strumento di crescita economica dell’economia e regolatore della distribuzione del reddito grazie ai processi di espropriazione della cooperazione sociale e moltiplicatore finanziario della domanda finale – non ha prodotto un sistema di governance politico-economica in grado di garantire un minimo di stabilità. Ne poteva farlo, dal momento che condizione perché tale stabilità potesse essere garantita era una continua illimitata espansione degli stessi mercati finanziari, in grado di produrre (plus)valore in misura costantemente superiore agli effetti distorsivi e negativi sulla domanda che la crescente concentrazione dei redditi e l’espropriazione della ricchezza sociale prodotta dal “comune” comportava.», in www.uninomade.it.
8 Pierre Dardot/ Christian Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, La découverte, Paris 2009, p. 408 tr. nostra).
9 v. su questo punto le analisi di Gianfranco Borelli sui limiti della democrazia procedurale (G. Borrelli, Ragion di stato, Gouvernementalité, governance. Politiche di mondializzazione e trasgressioni del neoliberismo, su www.globalproject.info/…/Arienzo_-_Biopolitica-governance.pdf, 2010). Ma interessanti, seppure distanti dalla Nostra prospettiva, sono pure le indicazioni di A. Negri: «Torniamo dunque ai contenuti. Da un lato abbiamo una governance che esprime la necessità del comando, dall’altra abbiamo un potere costituente (diffuso ed irriducibile) che si muove come volontà di resistenza e di innovazione comune. Quando il rapporto diventa troppo violento la governance subisce la tentazione di trasformarsi in “potere di eccezione”; di contro, il potere costituente si presenta in maniera ancor più evidente e forte come resistenza. C’è uno squilibrio ontologico fra governance e potere costituente. A fronte della governance il potere costituente si pone in maniera permanente e comune e deve esser qui riconosciuto come forza non più extragiuridica ma legittimata a muoversi, a riunificare le resistenze come un’opposizione tanto dinamica quanto innovativa. Chiamiamo comune l’insieme delle forze resistenti/costituenti che si costruiscono come innovazione ontologica del legame sociale. Al contrario del potere di eccezione dunque la governance riconosce di fatto il potere costituente come l’elemento attivo nella costruzione dei processi istituzionali e giuridici. Ma la governance può vivere solo quando è più forte del processo costituente. Se la governance comanda ancora, comanderà solo fin che il potere costituente non diventerà, esso, egemonico». A. Negri, «La sovranità fra governo, eccezione e governance», in www.uninomade.it, , sezione Materiali.
10 Su questo v. G. Teubner, Nuovi conflitti costituzionali. Norme fondamentali dei regimi transnazionali, Bruno Mondadori, Milano 2012, in particolare la prima parte.
11 Dardot/ Laval, cit., p.423
12 M. Lazzarato, La fabrique de l’homme endetté, Ed. Amsterdam, Paris 2011, in particolare le pp. 58-62.
13 Ciò che appare davvero inquietante è l’uso strumentale dei migranti proprio del capitalismo predatorio: considerati come risorsa e demonizzati allo stesso tempo come minaccia, vengono di fatto utilizzati loro malgrado per erodere i pochi diritti rimasti ai lavoratori europei : lo scopo, ovviamente, è quello di creare un enorme esercito industriale di riserva da sfruttare senza pietà – tutti sotto-proletari, insomma! Marx insegna.
14 Vorremmo qui far riferimento a Lenin (nientemeno!) e al suo testo fondamentale Che fare?: senza un confronto critico con le tesi leniniste, non credo che si avrà la forza di contrastare l’egemonia del neoliberismo. Vorrei anche riferirmi all’utile saggio di L. Basso, Agire in comune. Antropologia e politica nell’ultimo Marx, Ombre corte, Verona 2012, che segue una prospettiva diversa. Come ricorda Mimmo Porcaro in un brillante articolo, «L’obiettivo della politica dei movimenti popolari diviene quindi, d’ora in poi, duplice. Da una parte deve esserci lo sviluppo delle istituzioni popolari di base, la crescita delle forme di autorganizzazione e di democrazia diretta e/o partecipata. Dall’altra deve esserci l’azione coordinata, scandita in tappe e fasi, finalizzata alla conquista e alla ridefinizione del potere di Stato. Da una parte il tempo lineare e cumulativo della crescita progressiva della soggettività popolare autorganizzata, dall’altra il tempo discontinuo e mutevole dell’intervento nella congiuntura politica. Da una parte l’agire cooperativo, dall’altra l’agire strategico. Senza l’uno non c’è l’altro. Senza il primo non c’è l’accumulazione delle conoscenze, delle relazioni e delle forze che consentano la conquista e trasformazione dello Stato e della produzione, non ci sono le autonome istituzioni popolari che, restando a distanza dallo Stato, riescano ad influenzarlo e trasformarlo senza però ridurre la politica socialista a statalismo. Senza il secondo non ci sono le risorse politiche, giuridiche ed economiche che consentano alle istituzioni popolari di costruire un nuovo ordine sociale e, prima ancora, di sopravvivere alla crisi.» Mimmo Porcaro, Occupy Lenin, in www.controlacrisi.org, .