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Il Comitato europeo dei diritti sociali afferma l’illegittimità del Jobs act in riferimento all’art.24 della Carta sociale europea.

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Una altra picconata al Jobs act. Il Comitato europeo dei diritti sociali, nella riunione dell’11 febbraio 2020, ha decretato che l’Italia viola il diritto dei lavoratori a ricevere “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione” in caso di licenziamento illegittimo.
“Dal Comitato europeo dei diritti sociali arriva una buona notizia che rappresenta una vittoria. Con il Jobs act, l’Italia viola un diritto sancito dalla Carta sociale europea”.
“Il Comitato ha accolto tutte le contestazioni al Jobs act ed ha riconosciuto che il decreto legislativo n. 23/2015 è in contrasto con l’art. 24 della Carta sociale europea che sancisce il diritto alla reintegra per ogni lavoratore ingiustamente licenziato, oppure, se questa non è concretamente praticabile, un risarcimento commisurato al danno subito, senza ‘tetti’ di legge”.
Il Consiglio da Strasburgo ha infatti affermato che il sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo configurato dal Jobs act, anche dopo le modifiche del 2018, resta privo dei requisiti di “effettività” e “deterrenza” richiesti dall’articolo 24 della Carta sociale europea.
Infatti la legislazione italiana esclude a priori la possibilità di essere reintegrati nella maggior parte dei casi di licenziamento e fissa l’importo massimo dell’indennizzo erogabile al lavoratore: 36 mesi di retribuzione per i dipendenti di imprese medio-grandi, e 6 mesi per quelli delle piccole imprese.
Questo, di fatto, impedisce al giudice ogni possibilità di valutare e di riconoscere l’eventuale danno supplementare subito dal lavoratore a seguito del licenziamento.
“Il monito arrivato da Strasburgo è netto e ineludibile, smentisce l’impianto teorico del Jobs act.
Ora va ripensata la disciplina del licenziamento non domandandosi quale sia il regime più favorevole per le imprese, ma quali siano le tutele più adeguate per i lavoratori e le lavoratrici. La via da seguire esiste già: il ripristino e l’allargamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
La Carta sociale europea è un trattato del Consiglio d’Europa, adottato a Torino nel 1961 e rivisto a Strasburgo nel 1996. La Carta riveduta è entrata in vigore nel 1999 e sta gradualmente sostituendo il trattato iniziale, entrato in vigore nel 1965. La Carta riconosce i diritti umani e le libertà e stabilisce un meccanismo di controllo per garantirne il rispetto da parte degli Stati.
La Carta è realizzata in modo da supportare sotto il profilo dei “diritti di seconda generazione” il sistema del Consiglio d’Europa, sorto intorno alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che riconosce i diritti civili e politici. La Carta garantisce i diritti positivi e le libertà che riguardano tutti gli individui nella loro esistenza quotidiana. I diritti fondamentali enunciati nella Carta sono i seguenti: diritto di abitazione, salute, educazione, i diritti del lavoro, l’occupazione, il congedo parentale, la protezione sociale e legale, dalla povertà e l’esclusione sociale, la libera circolazione delle persone e di non discriminazione, e anche i diritti dei lavoratori migranti e delle persone con disabilità.
Gli Stati aderenti alla Carta devono presentare relazioni annuali su ogni parte delle disposizioni della Carta (siano esse relative alla Carta del 1961 che alla Carta riveduta del 1996), mostrando la loro attuazione nel diritto e nella pratica. Il Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS) è l’organo responsabile del controllo di conformità degli Stati aderenti alla Carta.
Il CEDS è composto da 15 membri indipendenti e imparziali, che sono eletti dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per un periodo di sei anni, rinnovabile una volta
La versione riveduta della Carta è stata ratificata dall’Italia con la legge n. 30 del 1999.
Infatti, l’art. 24 riconosce il Diritto ad una tutela in caso di licenziamento in base al quale gli Stati s’impegnano a riconoscere:”
a il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio;
b il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.
A tal fine, le Parti si impegnano a garantire che un lavoratore, il quale ritenga di essere stato oggetto di una misura di licenziamento senza un valido motivo, possa avere un diritto di ricorso contro questa misura davanti ad un organo imparziale.”

Il ruolo dell’art. 24 della Carta Sociale Europea nella sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale. L’adeguatezza del risarcimento ed il divieto di standardizzazione.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 194/2018 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs Act sulle tutele crescenti) nella parte in cui prevedeva che il computo dell’indennità per i casi di licenziamento illegittimo dovesse avvenire secondo un criterio di rigida standardizzazione stabilito in due mensilità di retribuzione globale di fatto per ogni anno di anzianità maturata dal lavoratore. La Corte ha riconosciuto che il limite massimo di 24 mensilità di retribuzione, successivamente elevato a 36 mensilità dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87 (poi convertito nella l. 9 agosto 2018, n. 96), non costituisce violazione della nozione costituzionale di “adeguatezza” del risarcimento, da intendersi come tale il ristoro che realizzi un adeguato contemperamento degli interessi in gioco (sentenze n. 235 del 2014, n. 303 del 2011, n. 482 del 2000, n. 132 del 1985). Ne è risultata l’affermazione dell’essenzialità strutturale del giudizio di bilanciamento effettuato in concreto dal giudice tra una vasta gamma di criteri valutativi, quali il numero di dipendenti occupati, le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, il comportamento e le condizioni delle parti, le dimensioni dell’attività economica. La Corte non ha invece preso posizione in merito alla compatibilità costituzionale del limite minimo di 4 mensilità, elevato a 6 mensilità dal c.d. “decreto dignità”.
Tra i molteplici profili di possibile incostituzionalità sottoposti all’attenzione della Corte, un ruolo particolarmente significativo è giocato dall’art. 24 della Carta Sociale Europea, il quale stabilisce che “per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere:
a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio;
b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.

La sentenza n. 194/2018 ha riconosciuto l’idoneità delle disposizioni della Carta Sociale.

Europea ad assumere valenza propria di parametro interposto rispetto all’art. 117 Cost., così rompendone il confinamento nell’opaca nebulosa del soft law. La Corte ha invece esplicitamente escluso che le decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, istituito dal Protocollo Addizionale del 1995 quale organo competente a pronunciarsi sui ricorsi collettivi proposti avverso le lamentate violazioni della Carta, possano assumere per i giudici nazionali analoga efficacia vincolante. Il ragionamento seguito dal Corte Costituzionale muove dall’assunto per il quale, a differenza di quanto avviene nell’ordinamento giurisdizionale proprio della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, né la Carta Sociale Europea, né il Protocollo Addizionale contengono disposizioni di effetto equivalente all’art. 32 § 1 CEDU e all’art. 46 CEDU, i quali fondano l’autorità di res iudicata delle sentenze rese dalla Corte EDU relativamente allo Stato in causa. Sulla scorta di tali premesse la Corte Costituzionale ha ritenuto, in sintesi, che le disposizioni della Carta Sociale Europea sono in sé giuridicamente vincolanti, ma non anche l’interpretazione che di esse sia data dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali. Già nel caso deciso con sentenza n. 120/2018 la Corte Costituzionale aveva escluso il riconoscimento di qualsivoglia efficacia vincolante alle determinazioni interpretative assunte dal Comitato nel caso Conseil Européen des Syndicats de Police c. France con decisione del 27 gennaio 2016.

La questione della valenza giuridica delle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali.

La questione della valenza giuridica delle decisioni adottate dal Comitato è suscettibile di assumere una rilevanza applicativa di notevolissimo impatto. Per un verso, il testo letterale dell’art. 24 della Carta, affermando un principio di sostanziale indifferenza tra rimedi economici-indennitari e rimedi reintegratori-restitutori, di per sé non solleva particolari rischi di conflitto rispetto ai tradizionali principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale in tema di riparazione del danno da licenziamento illegittimo, primo tra tutti la negazione che la tutela reintegratoria sia un rimedio costituzionalmente imposto, ferma la necessità di garantire l’adeguatezza del risarcimento (cfr. sentenze n. 303 del 2011 in merito alla questione di costituzionalità dell’art. 32, cc. 5, 6 e 7 della l. 4 novembre 2010, n. 183, n. 46 del 2000 in merito all’ammissibilità della richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970, n. 44 del 19.2.1996 e n. 194 del 18.12.1970 sulla compatibilità costituzionale della tutela indennitaria prevista dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966, nonché, amplius, le sentenze n. 199 del 2005, n. 148 del 1999, e n. 420 del 1991). Per contro, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali, pronunciandosi sull’ormai noto caso Finnish Society v. Finland (decisione n. 106/2014), ha elaborato un’interpretazione dell’art. 24 della Carta Sociale Europea potenzialmente dirompente. Muovendo dall’esigenza di individuare il corretto punto di bilanciamento che nel sistema convenzionale devono trovare da un lato l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, dall’altro lato l’interesse organizzativo-finanziario del datore di lavoro, il Comitato ha ritenuto che costituisca “adeguata compensazione” quella che include:
a) il rimborso delle perdite economiche subite tra il licenziamento e la decisione del ricorso (“reimbursement of financial losses incurred between the date of dismissal and the decision of the appeal body”);
b) la possibilità di reintegrazione (“reinstatement”);
c) una compensazione economica di livello sufficientemente elevato da assicurare la reintegra del danno e dissuadere il datore di lavoro dal reiterare illecito (“compensation at a level high enough to dissuade the employer and make good the damage suffered by the employee”).
In sostanza, nell’interpretazione cui è pervenuto il Comitato i rimedi di carattere indennitario-risarcitorio possono essere considerati adeguato rimedio compensativo soltanto quando siano tali da reintegrare il lavoratore illegittimamente danneggiato in una situazione non meno favorevole di quella in cui in cui egli si sarebbe trovato se l’illecito non fosse stato commesso (“the possibility of awarding the remedy recognises the importance of placing the employee back into an employment situation no less favourable than he/she previously enjoyed”).
Dall’analisi del percorso argomentativo sviluppato dal Comitato, si evince che rimedio reintegratorio e rimedio compensativo sono strumenti di tutela qualitativamente eterogenei, in quanto per natura diretti a reintegrare tipologie di danno sostanzialmente non assimilabili. In coerenza con tale principio il Comitato, muovendo dal rilievo che sono ben ravvisabili casi concreti in cui il danno effettivo subito dal lavoratore in conseguenza del licenziamento ingiustificato è superiore al plafonnement prestabilito dalla legge, ha ritenuto che la legislazione finlandese, nel prevedere un limite di 24 mesi di retribuzione quale soglia risarcitoria massima onnicomprensiva del danno, integri una violazione dell’art. 24 della Carta in quanto fatalmente inidonea ad assicurare che la compensazione economica del danno sia in ogni caso commisurata alla perdita effettivamente sofferta. Né valgono a sanare tale deficit i rimedi antidiscriminatori previsti dall’ordinamento finlandese, i quali compensano una distinta tipologia di danno, eventualmente concorrente, rispetto al danno da licenziamento ingiustificato, il quale deve trovare autonomo ed autosufficiente ristoro.
A tale proposito destano particolare interesse, in ragione della specularità rispetto alla disciplina sanzionatoria dell’art. 8 della l. n. 604 del 1966, le Conclusioni tratte nel 2012 nei confronti della Bulgaria, ove il Comitato ha ritenuto inadeguato il limite compensatorio massimo di sei mesi di retribuzione previsto dalla legge nazionale bulgara.
Quanto al particolare profilo dell’inesistenza nel diritto finlandese del rimedio reintegratorio, il Comitato ha chiarito che una corretta lettura dell’art. 24 della Carta, nell’inciso ove esso fa riferimento ad “altra adeguata riparazione”, impone che il concetto di other appropriate relief debba necessariamente abbracciare la tutela reintegratoria, la quale è il rimedio per eccellenza in grado di porre il lavoratore nello status quo ante. Ed infatti il Comitato ha escluso che possa costituire riparazione in sé “adeguata” l’obbligo legale di reimpiegare il lavoratore licenziato in caso di nuova assunzione nei nove mesi successivi al recesso, atteso che la tutela reintegratoria deve poter operare senza limitazioni temporali o comunque rimesse alla valutazione discrezionale del datore di lavoro (nello stesso senso, Conclusioni Finlandia 2012). Se ne deduce che il rimedio compensatorio, qualora previsto in via alternativa rispetto al rimedio reintegratorio, può essere considerato adeguata forma di tutela soltanto quando sia di entità tale da garantire al lavoratore di un ristoro tendenzialmente integrale del danno patrimoniale e non patrimoniale sofferto, e quindi tale da assorbire l’equivalente economico del valore del posto di lavoro illegittimamente perduto, senza esaurirsi necessariamente in esso.

La diversa impostazione della Corte Costituzionale.

Tanto chiarito, Corte Costituzionale e Comitato Europeo dei Diritti Sociali divergono nel modo di intendere il concetto stesso di compensazione economica del danno. Come noto, la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale ritiene compatibile con l’ordinamento costituzionale un rimedio sanzionatorio, di natura puramente economica, strutturato secondo il criterio della “forbice edittale”, la cui logica assume che qualunque danno subito dal lavoratore ingiustamente licenziato possa e debba trovare adeguato ristoro entro un certo limite di valore predeterminato per legge, inclusi i casi in cui il danno effettivamente subito sia esorbitante rispetto al tetto massimo stabilito dalla legge. Per altro, il principio di “adeguatezza” risarcitoria è stato ritenuto salvo anche in taluni casi in cui, a determinate condizioni, l’entità concreta del risarcimento risulta di gran lunga inferiore rispetto agli standard quantitativi individuati dal Comitato Europeo dei Diritti Sociali (v. la già citata sentenza n. 46 del 2000 nonché, in tema di legittimità dell’esclusione della tutela reale nelle imprese sotto soglia dimensionale, le sentenze n. 55 del 1974, n. 2 del 1986, n. 152 del 1975).
Sembra invece che, a giudizio del Comitato, sia lo stesso concetto di “forbice edittale” a porsi in tendenziale contrasto con i criteri di tutela minima previsti dall’art. 24 della Carta, atteso che esso, imponendo un criterio di liquidazione intrinsecamente forfetizzato, determina un’inevitabile divaricazione tra danno effettivo e liquidazione concreta. Vi è anche da dire che tale approccio interpretativo risulta sostanzialmente coerente con lo standard di tutela sancito dall’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982, non ratificata dall’Italia, il quale concepisce l’annullamento del licenziamento con reintegrazione nel posto di lavoro quale rimedio principale di tutela del lavoratore, mentre i rimedi di “adeguato indennizzo o ogni altra appropriata forma di riparazione” sono legittimati ad operare in via solamente subordinata, quando l’organo giurisdizionale investito della controversia, sulla base della legge nazionale applicabile, non disponga del potere di annullamento/reintegrazione.
Sotto questo profilo, merita attenzione anche il potenziale impatto applicativo che il principio di integralità – almeno tendenziale – della tutela risarcitoria è suscettibile di sortire sull’art. 3 comma 2 del Job Act, il quale stabilisce che nei casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e giusta causa in cui sia direttamente provata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, la misura dell’indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione deve essere forfetizzato entro il limite di dodici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, qualunque sia la durata effettiva del lasso temporale interinale.

La possibile valenza dell’art. 24 della Carta dei Diritti Sociali quale fonte di soft law.

A questo punto è necessario interrogarsi se l’opzione ricostruttiva sposata dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 194/2018 sia l’unica ammissibile, o se invece esista uno spazio giuridico per riconoscere al frutto dell’attività interpretativa del Comitato Europeo dei Diritti Sociali un possibile impatto conformativo sull’ordinamento interno, idoneo quanto meno ad orientare la discrezionalità valutativa propria della giurisdizione nazionale. A questo proposito, assume crescente evidenza l’influenza conformativa esercitata sugli ordinamenti nazionali sia dall’analisi di diritto comparato, sia dal soft law come tale, per mezzo del ruolo precipuo che ad essi viene riconosciuto dalla giurisprudenza delle corti europee nell’interpretazione del contenuto degli obblighi sovranazionali che ciascuno Stato membro nel suo complesso – vale a dire nella sua articolazione legislativa, amministrativo-esecutiva e giurisdizionale – è chiamato ad adempiere. Si consideri, in particolare, l’impatto esercitato dal diritto comparato e dal soft law sulla struttura argomentativa delle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in relazione alla determinazione sia del significato convenzionale da attribuire alle clausole della CEDU e dei suoi Protocolli addizionali, sia del margine di apprezzamento riconosciuto a ciascuno Stato membro. (v. König c. Germania, sentenza del 28 giugno 1978, Ramos Nunes De Carvalho e Sá c. Portogllo, sentenza di Grande Camera del 6 novembre 2018, Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, Paradiso e Campanelli c. Italia, sentenza di Grande Camera del 24 gennaio 2017, Mennesson c. Francia, sentenza 26 giugno 2014, Labassee c. Francia, sentenza del 26 giugno 2014, Parrillo c. Italia, sentenza del 27 agosto 2015, nonché l’advisory opinion del 10 aprile 2019 in tema di maternità surrogata. In dottrina, Elens-Passos, Le consensus européen est-il tendance? Human rights in a global world: essays in honour of judge Luis López Guerra/Guido Raimondi, Oisterwijk, Wolf Legal Publishers, 2018, 5 ss.; Piedimonte Bodini, Metodo comparativo nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo: la teoria, la pratica ed il ruolo della Divisione Ricerca, in corso di pubblicazione in Quaderno di Questione Giustizia–Speciale CEDU), 2019.
Alla luce di tale approccio ricostruttivo deve essere interpretato anche il valore giuridico dei richiami effettuati da talune decisioni della Corte EDU alla Carta Sociale Europea e, soprattutto, alle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali (v., ex multis, Ognevenko c. Russia, n. 44873/09, 20 novembre 2018, pendente richiesta di rinvio alla GC; Adyan and others c. Armenia, n. 75604/11, 12 ottobre 2017; Vörður Ólafsson c. Iceland, n. 20161/06, 27 aprile 2010). Merita rilevare che tra Corte di Strasburgo e Comitato Europeo dei Diritti Sociali esiste una particolare vicinanza istituzionale, atteso che entrambi gli organi sono incardinati in seno all’ordinamento proprio del Consiglio d’Europa. Pertanto, essendo il prodotto deliberativo del Comitato Europeo dei Diritti Sociali una fonte di soft law pienamente valorizzata dalla giurisprudenza della Corte EDU, appare coerente con il sistema integrato multi level riconoscerne l’attitudine conformativa sulla discrezionalità decisionale del giudice nazionale, atteso che anche in relazione al contenuto di tale parametro interpretativo, seppur mediato dal recepimento giurisprudenziale da parte della Corte EDU, deve essere verificato il grado di conformità convenzionale degli ordinamenti interni degli Stati membri. Se ne dovrebbe coerentemente dedurre un peso quanto meno orientativo anche ai fini della determinazione del quantum dell’indennità risarcitoria dovuta in applicazione dell’art. 3, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015.
Vi è anche da dire, in questo senso, che la stessa Corte Costituzionale, nell’analizzare la caratterizzazione strutturale delle componenti costitutive dell’indennità forfettizzata stabilita dal Jobs Act, ne ha valorizzato la funzione dissuasiva, in tal modo controbilanciando la “primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato” (sentenza n. 194/2018, par. 12.2). Alla luce di questo conclusivo angolo prospettico, è possibile intravvedere un possibile punto di convergenza valoriale, quantomeno tendenziale, tra l’approccio ricostruttivo fatto proprio dal Corte costituzionale e l’opzione interpretativa cui è approdato il Comitato Europeo dei Diritti Sociali nel caso Finnish Society v. Finland.

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