La crisi: le dinamiche e le passioni che agitano il presente… e il futuro…….
“In Italia, dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che altrove, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba ha luogo prima che altrove. Quivi il servo della gleba viene emancipato prima di essersi assicurato un diritto di usucapione sulla terra. Quindi la sua emancipazione lo trasforma subito in proletario eslege, che per di più trova pronti i nuovi padroni nelle città, tramandate nella maggior parte fin dall’età romana. Quando la rivoluzione del mercato mondiale dopo la fine del secolo XV distrusse la supremazia commerciale dell’Italia settentrionale, sorse un movimento in direzione opposta. Gli operai delle città furono spinti in massa nelle campagne e vi dettero un impulso mai veduto alla piccola coltura, condotta sul tipo dell’orticoltura”. Karl Marx, Il Capitale
Partiamo con questa pedante citazione, perché riteniamo importante analizzare la crisi, rompendo fin da subito un tabù, che spesso aleggia nella sinistra rispetto ad un presunto ritardo nel modello di produzione capitalistico in Italia. Questo ha fatto si che ancora oggi in Italia si analizzi la crisi considerando determinate organizzazioni sociali come retaggio del passato e non come elementi strutturali e integrati nell’economia politica presente. Pensiamo ad esempio alla valutazione dell’economia criminale (mafia, camorra, ‘ndrangheta), considerata elemento parassitario rispetto ad una economia produttiva sana, valutazione che non coglie il livello di integrazione tra questi elementi.
Ci interessa partire da questo punto perché c’è il tentativo di introdurre una simile apparente contraddizione tra finanza e produzione da parte dei paladini dell’economia politica di sinistra.
Nel dopo guerra il sistema industriale italiano trovò la sua linea di sviluppo nella produzione di beni di consumo durevole, in particolare automobili ed elettrodomestici a basso costo e beni di investimento per industria ed edilizia.
L'industria è stata largamente sostenuta da investimenti pubblici. Dopo gli anni 50 si è assistito ad un boom delle esportazioni accelerato dalla costituzione dell’unione doganale con gli altri Paesi europei, il MCE (Mercato Comune Europeo), e dall’espandersi della domanda interna di quegli stessi beni.
Il processo di crisi, a partire dalla metà degli anni '70, portò all’interruzione di quel meccanismo di crescita avviato nel dopo guerra caratterizzato, nelle principali economie mondiali, dal meccanismo dell’economia mista. Dagli anni '30 il meccanismo dell’economia mista aveva assunto un ruolo principale per lo sviluppo delle condizioni per la prosecuzione dell'accumulazione, intervenendo nel ciclo di accumulazione del capitale in diverse forme, dal modello americano a quello russo, dallo stalinismo alla destra fascista fino alle democrazie post belliche.
In Italia, con la crisi degli anni 70 si mette in moto un gigantesco meccanismo che rende obsoleto il sistema su cui si era retto fino a quel momento lo sviluppo economico e la crescita. Questo sistema, basato su enti pubblici autonomi (IRI), ha aperto inevitabilmente un ciclo di inflazione galoppante e un aumento del debito pubblico.
Le ristrutturazioni della grande industria che ne conseguirono, indicano la fine di un modello di sviluppo, che si è inevitabilmente infranto contro i limiti del capitalismo sovvenzionato dalle politiche keynesiane.
In questa ristrutturazione è possibile vedere anche una certa reattività del capitale nei confronti della lotta operaia che si era sviluppata in quegli anni, tuttavia, riteniamo che da solo questo aspetto non spieghi adeguatamente il passaggio dal ciclo espansivo del capitale agli avvenimenti successivi. La capacità di modificare il cosiddetto “piano” del capitale, per utilizzare una locuzione a noi non troppo cara ma tanto in voga in quegli anni in Italia, va inserita nelle condizioni generali in cui si è manifestata la crisi, che ha colpito un modello di sviluppo del capitale e con esso il conflitto di classe collegato a quella fase.
In altri termini, non riteniamo che la crisi di accumulazione che ha colpito il capitale a partire dagli anni settanta sia del tutto riconducibile allo sviluppo della conflittualità di classe espressa nel periodo precedente, la ristrutturazione conseguente non era una semplice reazione del capitale al conflitto di classe.
Senza sminuire l'importanza di quel ciclo di lotte, bisognerebbe leggere le agitazioni come manifestazione dell' esperienza diretta di migliaia di proletari in lotta evitando di avvolgerle nel mito ideologico.
In questo senso troviamo delle affinità con il giudizio postumo di Marx sulla Comune di Parigi: “La ribellione di una sola città in condizioni specialissime, con una popolazione che non era – né poteva essere- socialista. Con un tantino di buon senso in più, sarebbe forse stato possibile raggiungere un compromesso con Versailles favorevole ai comunardi. Ma non si poteva fare nulla di più” Lettera di Marx a F.D. Nieuwenhuis, 1881.
La controtendenza che si verificherà subito dopo è stata caratterizzata dallo sviluppo e la profittabilità delle piccole e medie imprese che diventano la spina dorsale dell’intera economia italiana. Siamo nel cosiddetto periodo “del piccolo è bello”. Di fronte alla progressiva diminuzione delle grandi centrali industriali, la cui manodopera viene riassorbita in parte dalle imprese pubbliche (aumentando il debito pubblico), c’è chi apparentemente fa a meno dell’intervento pubblico e si presenta come virtuoso e innovativo. Per una ventina d’anni il cosiddetto piccolo è bello copre la scena italiana. Tuttavia fin dal suo momento costitutivo un simile modello rappresenta una capacità adattiva piuttosto che propulsiva per l’accumulazione, rendendo inevitabilmente marginale il ruolo del capitalismo Italiano rispetto a quello di Stati Uniti, Giappone e altri Stati europei.
Chi vide con la fine della grande industria in Italia una modificazione del sindacato, prima caratterizzato dall'opposizione e poi dalla gestione, non riuscì a cogliere la reale dinamica sindacale. E’ normale che con la fine dei grandi concentramenti industriali classici, la morfologia del sindacato cambi, modificando la composizione, con un aumento quantitativo imponente di pensionati e personale del pubblico impiego, sia aumentando i servizi (caf, patronati ecc…), senza mutare la sua funzione. L’idea che possa esistere un sindacato antagonista, una organizzazione che esiste al di là dei processi storici che determinano i rapporti di forza tra le classi, è idealistica. Lo sviluppo e la diffusione dei consigli di fabbrica alla fine degli anni '60 in Italia dimostrò precisamente, come tante altre volte è avvenuto nella storia, che ogni volta che le lotte dei salariati oltrepassano un certo grado di ampiezza e di intensità, devono tendere a costruire forme adeguate alla natura della classe e al grado di socializzazione del processo produttivo. La decadenza di queste nuove forme dipende dal declino delle lotte stesse. Lo stesso declino dei Soviet russi, funzionanti fino ai primi 6-12 mesi dalla rivoluzione, fu causato essenzialmente dal venir meno della partecipazione delle masse, ossia dalla fine del processo di generalizzazione di nuovi rapporti sociali. Tali rapporti sociali possono svilupparsi anche quando non modificano i rapporti di produzione, anche se il loro potere di rottura è sicuramente molto più limitato.
Qualsiasi sindacato deve sottostarsi alle leggi di mercato e alle fluttuazioni dell’accumulazione di capitale (l’unica vera autentica genuina variabile indipendente), pena l’essere posto fuori gioco dai lavoratori stessi. Va letta in questo senso la differenza che esiste tra una lotta economico-politica e una lotta che rompe con l’economia-politica, la cui differenza non si manifesta nelle forme, ma nell’essere cioè nella dinamica della lotta di classe stessa, nella capacità di generalizzare nuovi rapporti sociali. In questo senso la scala di valutazione del successo di una lotta viene ad essere rovesciata, in quanto il proletariato è elemento del capitale solo quando rompe il suo legame con esso e sviluppa nuovi rapporti sociali. La mitologia dello stato sociale, della distribuzione equa, ecc… in realtà non ha nulla a che fare con la critica dell’economia stessa, ma è piuttosto il volano per nuovi cicli di accumulazione. Questo non vuol significare che le lotte sono inutili, ma occorre capire i meccanismi di rottura o integrazione che esse creano nei confronti del capitale.
L' impianto “piccolo è bello” vide nel meccanismo svalutativo della Lira un volano di questa apparente rinascita, che permise una maggiore ridistribuzione di profitti, ma non annullò i meccanismi di crisi di accumulazione. Una buona fetta di forza lavoro impiegata in questo settore fu una massa di precari autoctoni e immigrati.
La compressione dei salari messa in atto in quegli anni portò certamente un aumento, non eclatante, del saggio di profitto senza che si riavviasse l’accumulazione. L’aumento vertiginoso del debito negli anni '70/'80 si poteva interpretare come uno spostamento di denaro a favore dei grandi gruppi finanziari in prima battuta, e poi a favore di ceti intermedi possessori di capitali, invece diede vita ad una sempre più aspra lotta fra gruppi sociali desiderosi di mantenere almeno le quote già ottenute. L’esplosione della adesioni alla Lega Nord nei primi anni novanta è dovuta a questo meccanismo, favorita anche da una difficile condizione dei lavoratori, per cui una parte beneficiava sul piano reddituale di una relativa redistribuzione, ma che in realtà vedeva aumentare la divisione e la concorrenza tra i lavoratori stessi nel suo insieme.
Tuttavia le difficoltà sistemiche rimasero e vennero unicamente posticipate. Oggi, non tanto paradossalmente, la forza del “piccolo è bello” viene ad essere descritta dagli stessi apologeti del passato come il limite stesso del sistema, che non colesro né prima né ora il meccanismo del processo di crisi in atto.
Sul piano politico questo “mondo” vedeva in Berlusconi il suo alfiere, e come sempre la sinistra scambiava un fenomeno di debolezza come un mastodontico mostro invincibile. La sinistra si è contrapposta a Berlusconi, riproponendo l'ideologia antifascista e democraticista, tanto da farci parafrasare una vecchia frase di Bordiga: “Il peggior prodotto del berlusconismo è stato l’antiberlusconismo”. L’apparente potenza di Berlusconi, il controllo delle TV, la sua “onnipotenza”, sta lentamente svanendo come neve al sole, di fronte alle scariche telluriche della crisi in atto e oggi viene ricordato come un vecchio satrapo. La sinistra continua tuttavia a descriverlo come il responsabile della crisi in corso, non paga degli errori del passato. Troppo onore per l’ultimo baluardo di b-movie erotici all’italiana…
La crisi, esplosa nell’estate del 2008 rende evidenti le contraddizioni accumulatesi sin dagli anni ’70, e caratterizza tutti i campi del modo di produzione capitalistico. La portata dell’attuale crisi, la più violenta e generalizzata dopo quella del 1929, dipende proprio dall’estensione e dalla profondità di quelle contraddizioni. Le attuali deflagrazioni non sono che l’onda lunga di quella crisi internazionale del sistema capitalistico cominciata nel 1974-75. La stessa portata planetaria affonda le proprie radici in quei tempi ormai remoti. E’ infatti la stessa crisi legata alla riduzione del saggio di accumulazione, l’unica responsabile del collasso economico in corso. Essa negli anni ha accelerato incredibilmente i tentativi speculativi. Ma quali sono gli indici della crisi? Caduta della produzione industriale, degli investimenti in capitale fisso, del tasso di profitto, aumento dell’esercito industriale di riserva, speculazione finanziaria, crisi debitoria degli Stati e “corsa all’oro”. Tutti indizi di una nuova recessione globale che coinvolge anche i paesi emergenti e che diffonde un senso di panico generalizzato.
Se la crisi trova la sua manifestazione nella forma finanziaria, forma prevalente del capitalismo contemporaneo, la sua sostanza e le sue radici risiedono all’interno dei meccanismi di produzione, e più specificamente nella crisi di profittabilità che si esprime nella caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Marx considera così la caduta tendenziale del saggio di profitto: “Questa è, sotto ogni rispetto, la legge più importante della moderna economia politica, e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. E’ una legge che, ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa consapevolmente” K.Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica.
Siamo in presenza di una profonda differenza tra le vecchie crisi di sovrapproduzione, incontrollabili, ma da cui il capitalismo ancora giovane si liberava spingendosi più in là in nuove crisi, di livello economico sempre più alto dalla crisi attuale, che viene producendosi in un organismo vecchio, corroso da molti decenni di parassitismo finanziario (esasperato negli ultimi vent'anni). Gli scenari per il futuro non indicano affatto una ripresa, stiamo assistendo piuttosto allo stabilizzarsi di un continuo deterioramento dell'economia mondiale che ha ripreso il trend che ha condotto al collasso della finanza e della produzione del 2007-2009, con ulteriori aggravanti: la crescita dei prezzi delle materie prime, in primo luogo il petrolio, un rallentamento della locomotiva asiatica e le difficoltà di molti Stati europei nel sostenere i livelli di indebitamento pubblico.
La bilancia corrente cinese ha avuto un avanzo del 2,8% del PIL nel 2011, contro un 10,1% del 2007, questo calo è stato dovuto principalmente alla contrazione della domanda europea e statunitense ( il 40% dell'export cinese).
La condizione dell'Unione Europea in questo scenario mondiale è aggravata dall'ulteriore instabilità finanziaria legata al debito pubblico di alcuni paesi dell'Unione e dalla anomalia valutaria costruita con l'Euro, che esprime un debito pubblico non finanziabile direttamente da una Banca Centrale prestatrice di ultima istanza, alla BCE, infatti, è fatto divieto di acquistare titoli pubblici emessi dagli Stati membri.
Tuttavia le condizioni di debolezza e instabilità Europea non sono causate da ragioni valutarie o di debito pubblico. Quest'ultimo anzi è, in rapporto al PIL, inferiore rispetto ai valori Giapponesi o Statunitensi. Le difficoltà degli Stati a rifinanziare con emissioni di titoli pubblici i deficit di bilancio sono la diretta conseguenza del perseverare della crisi. Gli Stati Europei, addossandosi il debito delle banche private hanno riportato la volatilità dei titoli azionari e l'instabilità del settore finanziario direttamente nel settore dei titoli pubblici. La competizione ha spinto in alto i differenziali dei tassi di interesse fra gli stati membri dell'Europa, peggiorando ulteriormente le condizioni di rifinanziamento del debito pubblico di paesi come Italia e Grecia. Per nazioni come l'Irlanda (appartenente al gruppo dei PIIGS) le condizioni del debito pubblico si sono deteriorate a seguito della “statalizzazione” del debito privato, in gran parte causato da disavanzi commerciali con l'estero che, in assenza di adeguamenti valutari, si tramutano in una continua crescita del debito estero. Il capitale, assetato di profitti che non riesce più a ottenere nel settore produttivo per via dell’accumulazione troppo elevata, trova nella particolare situazione europea (priva come dicevamo di un prestatore di ultima istanza) un’ulteriore occasione per speculare tramite, ad esempio, strumenti finanziari come i credit default swap.
Ma l'anomalia valutaria dell'Euro, sia dal punto di vista del finanziamento del debito pubblico sia per come ha agito nel determinare l'indebitamento estero di alcuni paesi come l'Irlanda, costituisce un modo di agire della crisi mondiale per i paesi dell'Unione Europea, non costituendone né la causa né tanto meno una leva su cui agire per favorire la ripresa.
È la crescita che determinerà la sostenibilità finanziaria dei paesi dell’euro, in quanto essa influenza la capacità di ridurre il debito sia in termini assoluti (tramite l’aumento del gettito fiscale) che relativo (aumentando il denominatore del rapporto Debito/PIL.
Il ricorso al credito diventa per il settore non finanziario l'unico strumento per sostenere la crescita. Ma il ricorso al credito è frenato sia dalla necessità del settore bancario di risanare i bilanci, sia dalla tendenza al cosiddetto delevereging del settore non finanziario, cioè dalla sostituzione del capitale di credito con reinvestimento di utili o emissioni azionarie. Nonostante le imprese europee abbiano mostrato una capacità di consolidamento dell'esposizione debitoria, il livello di indebitamento resta storicamente a livelli piuttosto elevati. Questo rende la stabilità economica e finanziaria del settore non finanziario europeo soggetta a rischi legati all'andamento sia dei tassi di interesse che a cali di domanda e dei profitti.
Il dilemma per i manovratori istituzionali si fa ancora più profondo. Un aumento “eccessivo” del credito potrebbe portare a spinte inflattive e al deterioramento della condizione patrimoniale delle banche, un consolidamento patrimoniale delle banche conseguente ad una riduzione del credito ai privati potrebbe rallentare ulteriormente la crescita economica peggiorando i deficit pubblici. In questo caso l'inevitabile ripercussione sui titoli pubblici, posseduti dalle banche, porterebbe ad un conseguente peggioramento dell'attivo del settore bancario che subirebbe la svalutazione legata ai titoli di Stato posseduti.
Il ciclo virtuoso della crescita dell'accumulazione spinta dal capitale di credito si è tramutata in ciclo viziato di un'economia sull’orlo del collasso.
Parlare di ripresa con queste premesse è solo il tentativo scaramantico degli analisti borghesi di esorcizzare il terrore di un repentino ripresentarsi di una crisi finanziaria che colpisca la fiducia nelle banche e negli Stati con conseguenti instabilità economica e politica deflagranti. Intanto si spera che la ripresa “sapientemente” guidata da governi, banchieri e capitani di industria, vecchi e nuovi, porti ad un nuovo ciclo di crescita.
Resta il fatto che lo stesso Fondo Monetario Internazionale deve riconoscere che “la ripresa attuale per le economie avanzate è la più debole dal dopoguerra”.
di redazione di Connessioni