La torsione neoliberale del sindacato tradizionale e l’immaginazione del «sindacalismo sociale»
Lo scopo di questi appunti è quello di stimolare una duplice riflessione. Assistiamo, oramai da lungo tempo, ad una profonda trasformazione della funzione del sindacato tradizionale. Con esso intendiamo le organizzazioni eredi del movimento operaio: come la forma sindacale confederale e le esperienze “cogestionarie” tedesche. Questa trasformazione sembra essere profondamente segnata da una torsione in chiave neoliberale del soggetto sindacale, divenuto “istituzione” attiva nel sistema della governance, al pari degli altri soggetti che in essa vi operano. In quanto tale, questa istituzione, sembra sempre di più introiettare quella razionalità governamentale tipica dell’impresa. Dal sindacato come soggetto autonomo per il conflitto sul salario, si assiste alla formazione di una organizzazione manageriale che svolge una funzione attiva nella segmentazione della forza-lavoro e nel processo di trasformazione del welfare.
Il contesto storico in cui questo processo sembra accelerarsi e giungere a compimento è quello della crisi e delle politiche dell’austerity. Le politiche fiscali restrittive e la ferrea disciplina di bilancio hanno momentaneamente raggiunto i risultati stabiliti: in termini redistributivi tra le classi sociali e nello stabilizzare alcuni rapporti di forza in Europa, tra le aree centrali e quelle periferiche.
Così la crisi e le politiche di austerity hanno dato vita ad una nuova geografia economica e sociale in Europa. Si tratta, è bene dirlo, di assetti non definitivi e ancora instabili. L’assenza di crescita economica (o i deboli segnali di ripresa in una parte dell’Europa), dopo circa 6 anni di crisi, gioca un ruolo fondamentale nell’instabilità di questi assetti. Ora le élites economiche e politiche, spingono affinché si riprenda il motore dell’accumulazione. Ma questo è il punto: come sarà il nuovo motore? E che ruolo avranno le organizzazioni sindacali tradizionali?
La seconda questione che affrontiamo riguarda, invece, l’affermazione di nuove soggettività, pratiche di lotta, capacità di autogoverno che alludono alla formazione di quello che ancora provvisoriamente definiamo come «sindacalismo sociale». E’ l’inizio di una ricerca. Serve a fissare le idee e il nostro scopo su questo argomento è quello di verificare delle ipotesi, spingere ad approfondire, richiamando l’attenzione su certi comportamenti collettivi.
2. Sindacato, distribuzione salariale e ruolo dello Stato
A marzo di quest’anno, il ministro del lavoro tedesco socialdemocratico Andrea Nahels, annuncia che il governo della grosse koalition è oramai pronto ad introdurre un «salario minimo», come misura generale, aperta a tutti i settori produttivi. A pochi giorni di distanza, in Italia, il governo Renzi, dichiara la volontà di adottare un bonus fiscale in grado di aumentare le retribuzioni nette dei lavoratori1. Due interventi che, evidentemente, con logiche profondamente diverse, riguardano la mediazione salariale e chiamano in causa lo Stato come soggetto di regolazione. Non è certo la prima volta; d’altro canto, lo Stato, lungo il ciclo neoliberale ha continuato a svolgere una funzione regolativa della redistribuzione attraverso le politiche fiscali, disciplinando gli istituti della contrattazione salariale e attraverso il passaggio dal welfare universale al work-fare e ai sistemi improntati ad una logica di residualità. Questa funzione, che la forma-Stato neoliberale ha continuato a svolgere, non deve evitare di farci vedere alcuni elementi di novità, capaci di indicare possibili tendenze o almeno cambiamenti parziali nel management della crisi. La nostra impressione è che questi interventi di carattere «equitativo» segnalino la volontà di introdurre una nuova modifica nelle relazioni tra Stato e organizzazioni sindacali tradizionali. Al centro di questa modifica, la sostanziale sussunzione dei luoghi della contrattazione all’interno della governance neoliberale; dove le organizzazioni sindacali tradizionali, in qualche caso per riflesso di rapporti di forza sfavorevoli, il più delle volte come risultato di una scelta soggettiva, hanno iniziato a svolgere una funzione “attiva” nel governo neoliberale della forza-lavoro.
Per cogliere questi aspetti è utile affrontare analiticamente queste determinazioni alla luce delle coordinate geografiche, che in modo ancora profondamente instabile, sembrano imporsi nello stesso conteso della crisi: internamente all’Europa e tra questa, gli Usa e i nuovi poli di sviluppo trainanti (BRIC). E’ bene chiarire che queste politiche «equitative» non riguardano solo il rapporto tra centro e periferia all’interno dell’Europa, inteso come relazione tra due spazi-nazione omogenei e stabilmente confinati. La funzione regolativa dello Stato, nello stabilire «salari minimi» nazionali o politiche «minime» di redistribuzione come in Italia, si integra con i livelli di contrattazione, sempre più schiacciati verso il basso (fino al limite del livello aziendale), moltiplicando a dismisura nuove gerarchie territoriali2. Questo risultato è stato ottenuto attribuendo, contro la formalità dei trattati, una parziale funzione di “prestatore di ultima istanza” alla BCE e agendo contemporaneamente: nel sistema privato dei mercati interbancari (mediante il Long Term Refinancing Operations) e acquistando buoni del tesoro sui mercati secondari (Outright Monetary Transactions).
Esula dallo scopo di questa analisi, osservare le tappe della politica monetaria delle principali banche centrali, a partire da questo momento. Conviene, tuttavia, soffermarsi su un dato fondamentale: la FED, ancor prima della BCE, a più riprese, ha iniettato ingenti quantità di liquidità nel mercato finanziario, alimentando la spesa pubblica mediante l’acquisto di titoli. Questa enorme liquidità è rimasta prevalentemente intrappolata nei bilanci delle banche e degli operatori finanziari, mostrando un rallentamento nei meccanismi di trasmissione tra “capitale finanziario” e “capitale produttivo”, su cui si era basata sin dall’inizio la novità neoliberale del money manager capitalism3. Non si è dinanzi ad una svolta nella logica dell’accumulazione, ma queste difficoltà nella trasmissione tra rendita e profitti, dopo sei anni di crisi, si sente che iniziano a spaventare le élites economiche globali4.
Quello a cui assistiamo oramai chiaramente, e su cui bisogna concentrarsi, è che la ripresa della rendita finanziaria non traina l’economia reale, almeno non allo stesso modo di come era accaduto a cominciare dagli anni novanta. Le politiche monetarie mostrano, in questo modo, l’incapacità di uscire dalla crisi, soprattutto in Europa, dove il ruolo svolto dalla BCE è perfettamente integrato con la disciplina di bilancio dell’austerity. Ad essersi inceppato è quel diabolico motore della crescita, così come l’abbiamo conosciuto. L’indebitamento della forza-lavoro precaria, che ha toccato livelli di massa soprattutto nel mondo anglo-sassone (nella fase pre-crisi), ha rappresentato dagli anni novanta un processo di privatizzazione dei moltiplicatori della domanda effettiva. Ha assicurato che il circuito monetario si chiudesse sul lato della domanda, senza contraccolpi per la realizzazione di quei profitti divenuti rendita, e sollecitando quell’integrazione funzionale tra investimenti in capitale fisso e capitale finanziario (i primi in discesa a vantaggio dei secondi) da parte delle imprese. Inoltre, per tornare agli aspetti della geografa economica, la domanda indebitata è stata il perno attorno a cui si sono regolati i flussi di scambio commerciale e le partite correnti, tra diverse aree del globo. Internamente all’Europa: tra paesi del centro e della periferia. Tra gli Usa e l’Europa, ma soprattutto tra gli Usa e la Cina.
Nella fase attuale, e questo è il punto, l’indebitamento della forza-lavoro, si presenta, invece, come puro comando sulla vita. Il consumo indebitato, anche a causa degli alti livelli di disoccupazione, non ha più la stessa forza di chiudere il circuito dal lato della domanda e, soprattutto non traina gli investimenti produttivi5. La ripresa di questi meccanismi potrà passare attraverso altre strade e questo cambiamento, inevitabilmente, avrà una ripercussione anche sulla geografia della valorizzazione.
Ora, in questo quadro, in Europa, anche per effetto delle enormi diseguaglianze di reddito, per l’esplosione della povertà e per l’aumento dei livelli della disoccupazione, le élites politiche ed economiche mostrano la volontà di riafferrare un controllo politico, spaventate forse, dai nazionalismi della destra e soprattutto dal blocco dei meccanismi di trasmissione tra finanza e capitale produttivo. Così, le politiche «equitative» da cui siamo partiti, più che mettere radicalmente in discussione la logica della deflazione salariale che ha caratterizzato in modo differenziato tutta l’Europa (intensificatasi negli anni novanta), sembrano svolgere una funzione soprattutto di controllo politico. I governi iniziano a sottolineare la necessità di ripresa di una domanda interna agli Stati, ma con le politiche messe in campo, si è lontani dal cogliere questo obiettivo; piuttosto, quello che muta è l’ordine del discorso neoliberale, che adesso tende a mostrarsi più benevolente con chi la crisi l’ha pagata e la sta ancora pagando.
Questo cambiamento nell’ordine retorico dell’austerity, ha, però, un altro effetto materiale. Dicevamo: è la relazione tra Stato e organizzazioni sindacali tradizionali che continuaa mutare– i due attori della governance neoliberale. Ancora una volta, questa mutazione, assume caratteristiche differenziate sul piano dello spazio geografico.
Iniziamo dalla Germania. Due eventi sembrano essere legati tra loro. Prima abbiamo citato la volontà del governo tedesco di introdurre un «salario minimo» orario, che entrerà in vigore definitivamente nel 2015, e che prevede una paga oraria minima universale (con poche eccezioni) di 8,5 euro l’ora. Si tratta di un intervento normativo, unilaterale, deciso dal governo – senza configurarsi come la risposta di una pressione sociale provenuta dalla soggettivazione della forza-lavoro. Non è mai da trascurare nelle mani di chi è l’iniziativa politica. Lo Stato ha ricomposto, sotto il suo comando, il mercato della forza-lavoro. Lasciando al ruolo della soggettività organizzata, una funzione residuale, di settore.
Sandro Chignola, in un lavoro di inchiesta sul sindacato tedesco6, ci ha ricordato che, poco prima di questa proposta di riforma, l’IG-Metall, il forte sindacato metalmeccanico, ha recentemente ottenuto un aumento dei salari del 4,3%. Un risultato che non si vedeva da vent’anni, in un paese che ha fatto della riduzione salariale la leva di un disegno neo-mercantilista.
L’origine di questo risultato è attribuita, secondo gli stessi dirigenti del sindacato, alla loro specifica forma organizzata. Il modello “cogestionario” interpreta il ruolo del sindacato come un agente con la missione di tenere legata la rivendicazione salariale e i livelli occupazionali alla produttività. La relazione tra impresa e sindacati, non è intesa né nei termini di un conflitto distributivo né nei termini di un conflitto sull’organizzazione del lavoro, semmai come opportunità di “democratizzazione del management”. Chignola ci ricorda, inoltre, che uno degli effetti dell’azione di questo sindacato è quello di contribuire a gerarchizzare ulteriormente la forza-lavoro lungo le filiere transnazionali del settore (della produzione dell’auto): «l’aumento dei salari contrattato a livello d’impresa comporta in molti casi la compressione dei salari per i lavoratori delle catene di subappalto e fornitura», oltre la Germania, lungo le catene del valore che si dispiegano ad Est e in sud Europa.
L’intervento normativo dello Stato, così come il ruolo svolto dal sindacato, si mostrano entrambi interni alla logica della valorizzazione capitalistica; inoltre, entrambi svolgono la funzione di regolare la gerarchia degli spazi economici, tra centro e periferia, all’interno dell’Europa. Ed è questa trama dei rapporti geografici disegnata dagli attori della governance, a definire i parametri dentro cui possono operare queste dinamiche sui salari. Così, mentre nei paesi del centro (e lungo le filiere che da questa area si dipanano), può crescere una pressione sui salari lordi, altrove, nella periferia, come in Italia, gli unici spazi concessi alle dinamiche salariali riguardano recuperi giocati grazie alla benevolenza della politica fiscale.
In Italia, il governo Renzi e senza alcuna distinzione le organizzazioni sindacali tradizionali (compresa la Cgil) convergono nella possibilità dell’aumento dei salari agendo esclusivamente sul piano della pressione fiscale. Prima che il governo decidesse di intervenire, con un aumento molto limitato (si dice in media tra i 50 e i 60 euro) che riguarda esclusivamente un segmento della forza-lavoro, si era già assistito da lungo tempo ad una riflessione delle organizzazioni confederali (a partire dalla Cgil) sulla necessità di aumentare i salari attraverso le politiche. D’altro canto, mentre il governo, con il decreto Poletti, ha introdotto un’ennesima dose di precarizzazione nei rapporti di lavoro, le organizzazioni sindacali confederali avevano autonomamente deciso, con il testo unico sulla rappresentanza di gennaio 2014, di abdicare a qualsiasi funzione di conflitto nei luoghi della produzione e di indebolire, fino o a renderla inservibile, la struttura di contrattazione sociale.
Si tratta di processi «equitativi» confinati negli spazi nazionali e nella nuova geografia di valorizzazione che si determina nella crisi. E’, quindi, a partire da questi semplici elementi che lo spazio europeo costituisce la dimensione minima su cui sperimentare la costruzione di percorsi di conflitto.
3. Redistribuzione: dal welfare al workfare
Se da un lato lo speciale ossimoro dell’«austerity espansiva» contiene la possibilità di aumenti salariali controllati e differenziati sul piano geografico; dall’altro lato, le recenti riforme sul Welfare, contribuiscono ad assicurare che sul piano macroeconomico questi cambiamenti non turbino i rapporti di distribuzione del reddito sociale a favore della rendita e dei profitti. Durante la crisi, tutti i Paesi europei, hanno intrapreso riforme di taglio alla spesa per la protezione sociale, di ulteriore privatizzazione e, soprattutto, sono state ulteriormente inasprite le tecniche di controllo sociale sulla forza-lavoro. Anche su questo terreno, l’iniziativa è pienamente nelle mani dello Stato (e delle organizzazioni sovra-statuali), che non la conduce in modo indipendente, ma insieme agli agenti economico-finanziari privati, e con il contributo del sindacato tradizionale che anche in questo campo svolge la sua funzione attiva.
Qui, per comprendere cosa vogliamo intendere per funzione attiva del sindacato è opportuno ricorrere ad un breve confronto sul piano storico del ruolo stesso del Welfare.
Nella fase fordista e del compromesso socialdemocratico dell’accumulazione capitalistica, il Welfare State nelle sue forme universali à la Beverdige svolgeva principalmente due funzioni, profondamente integrate tra loro. Sul piano strettamente economico, il Welfare era strumento fondamentale della redistribuzione, costituendo salario indiretto e differito distribuito alla forza-lavoro. L’anticipazione monetaria pagata dalle imprese in forma di salario (diretto), veniva integrata grazie ad una «socializzazione di una quota del monte salari»7. Il sistema fiscale progressivo assicurava che le classi sociali più ricche sostenessero parte dei costi di riproduzione sociale della forza-lavoro. IlWelfare State, secondo una visione macroeconomica, poteva solo redistribuire ex-post una quota di valore che si sarebbe dovuto originare altrove. All’interno dei confini dei luoghi della produzione, dove il valore originava dal movimento del lavoro vivo, estratto grazie ai meccanismi tecnologici e al comando manageriale della produzione sulla forza-lavoro, nel suo passaggio dalla potenza all’atto. Quote di questo valore erano, quindi, prelevate dallo Stato, che attraverso il Welfare intendeva svolgere una funzione di regolazione del conflitto sociale e disporre di un meccanismo formale di «programmazione del benessere collettivo», imponendo vincoli esterni al mercato – come nella visione tradizionale di Pigou e in termini diversi, in quella di Keynes. Nella fase alta del conflitto di classe, a metà del secolo scorso, questa mediazione economica e politica è saltata continuamente, e le lotte sono riuscite a conquistare per sé nuovi terreni per lo sviluppo della riproduzione sociale. Nel compiere questo passo – e siamo dunque alla seconda funzione svolta dal Welfare – questa istituzione ha dispiegato il suo disegno originario, costituendosi come potente mezzo di invenzione della cittadinanza sociale, basata sulla centralità e sul dovere del lavoro8. Il motto socialista ottocentesco «chi non lavora non mangia», nella fase fordista dello sviluppo capitalistico si trasforma in «chi è cittadino deve essere anche lavoratore» e deve «accettare psicologicamente il proprio lavoro e di lavorare duramente [corsivo aggiunto]»9. Il Welfare State svolgendo una funzione di integrazione sociale di tutti i cittadini e determinando così un accesso ad alcuni nuovi valori d’uso, contemporaneamente, disciplinava, e ordinava la società a partire dalla centralità del valore di scambio della forza-lavoro con il salario.
Nella fase del capitalismo cognitivo o finanziarizzato, i regimi di workfare, svolgono una funzione sociale profondamente diversa. Sul piano formale, se si tiene conto delle tecniche di contabilità nazionale, il welfare svolge ancora un ruolo redistributivo; poiché i servizi pubblici erogati dallo Stato sono finanziati mediante il prelievo fiscale. Da questo punto di vista, è piuttosto evidente che gli “aumenti salariali controllati” promessi dal governo Merkel e da Renzi, sono immediatamente neutralizzati, attraverso la riduzione della spesa di protezione sociale, come riflesso delle varie manovre di bilancio. Tuttavia, soprattutto se si tiene conto dei sistemi di protezione del reddito, solo formalmente il work-fare svolge la funzione di redistribuire quote del monte salari. I processi di innovazione tecnologica del lavoro e la funzione economica e politica svolta dall’indebitamento finanziario hanno determinato uno sfasamento tra funzione distributiva e redistributiva – poiché è l’intero circuito di produzione della moneta che si è venuto a modificare nella fase neoliberale.
Il workfare non è più un vincolo esterno allo sviluppo delle forze del mercato, ma una tecnica di governo endogena al meccanismo di scambio tra forza-lavoro e salario (per i lavoratori dipendenti e per il lavoro autonomo). Non riequilibra le asimmetrie della distribuzione e non svolge neppure solo una funzione pubblica di assicurazione per i rischi della disoccupazione; bensì, è uno dei dispositivi istituzionali che contribuisce alla fabbricazione del soggetto neoliberale. Contribuisce, cioè, a fare interiorizzare la dimensione d’impresa nell’individuo, la determinazione del sé come risultato di investimenti nel «capitale umano», dopo aver valutato attentamente i rischi e calcolato razionalmente i costi e i benefici delle proprie azioni.
Il controllo della forza-lavoro, con il crescere della dimensione relazionale e della cooperazione sociale, si dispiega oltre lo spazio della produzione e oltre la dimensione salariale. Se il work-fare è uno dei terreni privilegiati di questo controllo, la finanziarizzazione svolge una funzione di integratore funzionale dei diversi interessi settoriali, poiché attraverso la funzione del debito si è introdotto un nuovo dispositivo di comando sulla forza-lavoro, mentre, con il cambiamento del ruolo delle banche centrali (a metà degli anni settanta) e la diffusione delloshadow banking, sono state alimentate le spinte monetarie alla torsione dal welfare universale al work-fare. In un regime basato sulla precarizzazione dei rapporti di lavoro e sui bassi salari, il consumo a debito, ha attribuito agli istituti finanziari il ruolo dell’anticipazione monetaria alla forza-lavoro (effettiva o potenziale), integrativa rispetto a quella svolta dalle imprese. I dispositivi di workfare (a cominciare dai paesi anglosassoni), dal canto loro, hanno assicurato che lo stato di disoccupazione non si protraesse all’infinito (il pensiero liberale ha sempre dannatamente avuto paura del rifiuto del lavoro, che per esorcizzarlo, sin dall’ottocento, ha pensato che la disoccupazione fosse sostanzialmente volontaria), in modo che il lavoratore indebitato estinguesse il proprio debito accettando qualsiasi forma di lavoro.
Il welfare, diventa così, un veicolo privilegiato di estensione dei dispositivi di sfruttamento, che approfondisce il comando originario e fondamentale insito nello scambio forza-lavoro e salario. Che, insieme all’integrazione della vita nei meccanismi del debito, danno luogo ad una ri-dislocazione dei tempi e dello spazio, tra il momento del comando sulla forza-lavoro e gli istanti (e i luoghi) in cui materialmente si dà l’estrazione di plus-valore dal lavoro vivo. In termini sociali, il welfare contribuisce, così, a determinare una sorta di matrice sociale con tempi differenziati in cui le soggettività dell’individuo precarizzato, “welferizzato” e indebitato si presentano in tempi e punti diversi di questa costruzione sociale, favorendo il processo di estrazione del valore. E’ in questi termini che il concetto classico di sfruttamento del lavoro sembra risultare limitato, a fronte della necessità di approfondire la nozione di “macchina estrattiva”, così come ha suggerito a più riprese Negri10.
Questo cambiamento dei ruoli del welfare sembra non essere stato capito dai sindacati tradizionali, che stentano a voler riflettere su come i dispositivi sviluppati sul governo dei working-poor, una volta sperimentati, poi si estendono a tutta la società. Rifiutano come il fumo negli occhi la rivendicazione di un reddito monetario di base incondizionato e sganciato dal lavoro, poiché a dir loro, questo minerebbe la luminosa e favolosa etica del lavoro. Ma, sia chiaro, non si tratta di cattiva volontà e neppure di loro soggettivi limiti interpretativi (qualche volta, non si esclude né la scarsa volontà e neppure l’ignoranza dei loro dirigenti!). Più “attivamente”, la cultura laburista, quando nella migliore delle ipotesi, ancora professa l’idea che la lotta del lavoro deve essere agita solo nei luoghi della produzione per la liberazione del lavoro, appare oggi completamente funzionale a quei dispositivi economici e politici che operano per fabbricare il soggetto neoliberale.
4. Oltre il «compromesso postfordista»
Come abbiamo visto, la conversione neoliberale del sindacato si presenta innanzitutto come un dispositivo di precipitazione e traduzione delle istanze regolative provenienti dalla nuova geografia economica europea. Tuttavia, questo processo definisce solo un aspetto della trasformazione in atto. Se confrontata con la fase storica precedente è possibile, in via del tutto approssimativa, delineare un salto significativo nella natura istituzionale del sindacato. A partire dagli anni Novanta, la posizione del sindacato italiano di fronte alle grandi trasformazioni del modo di produzione e del mercato del lavoro può essere interpretata a partire dal consolidarsi di quello che è stato definito «compromesso postfordista»11. Tale compromesso «scambiava» la disponibilità sindacale a tenere bloccati i salari e, al contempo, ad operare una controllata espansione della precarizzazione del lavoro, con la disponibilità del governo ad includere le rappresentanze sindacali nell’elaborazione della politica economica. La definizione di questo modello neocorporativo, esaltava nella contrattazione tripartita (governo-imprese-sindacati) l’ambizione direttamente politica del sindacato: esso diventava un soggetto attivo e interno alla logica governamentale. Interrogati sulle responsabilità di non aver difeso i diritti dei precari negli ultimi 15 anni, solitamente i sindacalisti tendono ad accogliere sommessamente la critica e a scusarsi della dimenticanza. In realtà, sono stati agenti di primo piano di quella politica del «doppio binario» che seguiva, legittimava e inaspriva, il crescente dualismo del mercato del lavoro. L’attacco al «salario come variabile indipendente» viveva qui un ulteriore fase: al congelamento delle richieste di aumenti retributivi per gli insider scambiato con la continuità occupazionale, corrispondeva per la crescente massa dei precari la sostituzione netta della stessa possibilità di animare delle lotte sul salario (sostanzialmente inesistenti in questo periodo) a favore di quelle per la stabilizzazione del posto di lavoro.
Con la «Grande Recessione» il compromesso si esaurisce quando la «precarietà espansiva» raggiunge un livello tale di consolidamento da esaurire la ragione stessa della politica del «doppio binario». La recente approvazione del Decreto Poletti è una straordinaria dimostrazione della ratifica del carattere strutturale della precarietà: per la prima volta, infatti, ciò che è già vero nella realtà, ovvero il ribaltamento tra norma ed eccezione e la generalizzazione dell’impiego precario come forma ordinaria di ingresso nel mercato del lavoro, ha una esplicita rappresentazione sul piano normativo. Ma l’esaurimento del compromesso postfordista introduce uno slittamento ulteriore nella funzione istituzionale del sindacato. Ed è qui che possiamo individuare i caratteri maggiormente specifici della sua nuova forma. Qui si passa da un ruolo fondamentalmente «normativo» ad uno di tipo strettamente «amministrativo». Probabilmente, il recente «scontro» tra la segretaria Camusso e Renzi sulla «partecipazione» del sindacato alle politiche governative, va letto all’interno di questo quadro.
Il passaggio è segnato su due distinti ma intrecciati livelli. Il primo riguarda la forma della contrattazione. L’adozione del criterio «maggioritario», sancito con l’accordo sulla rappresentanza sindacale del gennaio 2014, da un lato fa della «confederalità» il criterio di accesso alla contrattazione e del consenso al contenuto degli accordi la condizione per poter esercitare la rappresentanza nelle aziende, dall’altro impone una serie di sanzioni per coloro che «riaprono» la lotta oltre e contro gli accordi. In discussione è il superamento del «diritto alla lotta» e la marginalizzazione delle esperienze di sindacalismo dissidente. Questa modificazione della forma della contrattazione implica de facto la riduzione secca del ricorso al diritto allo sciopero. Il valore maggiore attribuito agli accordi è quello di determinare la «fine» della conflittualità.
Accanto a quello che determina una proprietarizzazione della contrattazione e l’esplicito richiamo a una funzione di controllo delle forme di conflitto all’interno dei luoghi di lavoro, il passaggio si presenta ad un secondo livello, inerente la funzione manageriale del sindacato.
Qui il sindacato è chiamato a svolgere un ruolo attivo nell’amministrazione delle politiche del welfare. L’impresa diventa il baricentro e il principale erogatore delle provvisioni più rilevanti del vecchio assetto (dalle forme di protezione contro la disoccupazione all’assicurazione sanitaria, dalla previdenza complementare alla formazione professionale, fino ad arrivare al ricorso a forme di credito). Questo nuovo baricentro aziendale e contrattuale, se da un lato moltiplica le linee di frattura all’interno della forza lavoro per quel che concerne la distribuzione delle protezioni, dall’altro proietta le rappresentanze sindacali in una logica direttamente manageriale. Il trasferimento sempre più consistente di componenti del welfare sul livello aziendale – a compensazione della riduzione del peso di quello statale – modifica la natura del sindacato, ora sempre più gestore ed erogatore di servizi, implicando una sua identificazione con la mission dell’impresa. La gestione del salario indiretto e differito perde qualsiasi residuo carattere mutualistico e solidaristico individualizzandosi sempre più e trasformandosi in componente meramente «meritocratica» e «pro-attiva». La sua amministrazione, oltre a diventare sempre più fonte di profitto per i sindacati, si traduce immediatamente in vettore di competizione tra le imprese e all’interno di queste, in concorrenza tra i sindacati.
5. Il «sindacalismo sociale»
Di fronte agli scenari fin qui tratteggiati e agli slittamenti che interessano la forma del sindacato tradizionale – come si è visto, chiamato sempre più insistentemente a svolgere una funzione attiva nella governance della crisi – occorre rivolgere lo sguardo alle lotte che stanno attraversando i territori metropolitani. Nelle manifestazioni del 18 e 19 ottobre del 2013, abbiamo visto un primo tentativo di convergenza di quelle esperienze di conflitto che ci sembrano delineare, benché in modo sfumato, una nuova forma di «sindacalismo sociale».
Consapevoli dell’estrema ambiguità di questa definizione, utilizziamo il termine «sindacalismo sociale» per raccogliere sotto una stessa cornice le variegate esperienze di lotta che, dentro e fuori le organizzazioni sindacali, contrastano il blocco del conflitto sociale e la pacificazione agita, per debolezza o per scelta, dalle forme sindacali tradizionali. Più che una proposta politica, si tratta di adottare un nome comune in grado di rendere conto della proliferazione di dispositivi di lotta che stanno riconfigurando radicalmente le tradizionali forme del conflitto dentro e oltre il lavoro e che, crediamo, possano alludere alla definizione di una nuova «forma sindacale». La sedimentazione delle esperienze di occupazione degli spazi sociali e delle abitazioni, i conflitti per la riappropriazione democratica delle istituzioni del welfare, la diffusione di pratiche di nuovo mutualismo e di organizzazione del lavoro autonomo e precario, pur nelle loro eterogeneità, nel mentre mostrano tratti comuni e ricorrenti, insistono esse stesse per un loro maggiore collegamento. Seppure raramente si autodefiniscono come esperienze sindacali, ci interessa in questo modo forzare lo sguardo verso le innovazioni che queste presentano dal punto di vista delle pratiche organizzative e delle forme di negoziazione.
Con il secondo termine, «sociale» – del resto non meno ambiguo del primo – non intendiamo in nessun modo designare alcuna sfera separata: qui l’attributo sociale non indica affatto ciò che resta fuori dal sindacalismo classico e che a questo si riferisce come una sua integrazione, ma quel movimento che costruisce il proprio territorio organizzativo attraverso la rottura dei dispositivi di «confinamento» dentro cui le lotte sono incapaci di incidere. Confini spaziali, settoriali, professionali e contrattuali. Il sociale qui ci sembra essere in primo luogo uno spazio di connessione che si muove in una direzione opposta a quella della segmentazione della forza lavoro metropolitana. Questo tratto comune che chiarisce l’attributo sociale di queste forme di organizzazione, si presenta tuttavia in modo differenziato, agendo su piani distinti.
Nelle lotte della logistica e della grande distribuzione questa connessione sociale, oltre a ricomporre le linee di frammentazione con le quali ordinariamente i padroni gestiscono la forza lavoro precarizzata, ha in alcuni casi ricostruito, dal basso, la filiera produttiva individuando direttamente la spazialità su cui si distende la catena del valore e su cui è possibile agire la forza. Non è un caso che solo a partire da questo «spazio» costruito dalle lotte è stato possibile, per i precari, riprendere il conflitto sul salario diretto. Più che una semplice caratteristica sociologica, l’estensione orizzontale di queste lotte si presenta come la condizione della loro efficacia politica.
Nell’economia dei servizi e nelle strutture del Welfare, la rottura della divisione di mercato tra erogatori e clienti apre a processi di soggettivazione inediti dove coloro che intrattengono un mero rapporto contrattuale si riconoscono come co-produttori del servizio. Qui le esperienze di lotta che nascono a «difesa» dei servizi o contro la degradazione delle condizioni di lavoro, si sono spesso ritrovate a mettere in discussione la stessa idea di servizio riscrivendone le finalità. L’apertura di uno spazio di cooperazione sovverte l’ordine amministrativo che contrappone gli «esperti» a «soggetti fragili e mancanti», operando una nuova distribuzione dei saperi e delle capacità. Come nelle esperienze di autogestione degli spazi culturali, il «sociale» qui si presenta non solo come uno spazio di composizione ma anche come l’oggetto di una produzione comune inseparabile dalla cooperazione che l’ha reso possibile.
Nel caso dei lavoratori della cultura o degli operai che occupano le fabbriche, le lotte sul lavoro diventano anche pratiche di riorganizzazione comune del lavoro.
Probabilmente è a partire dagli obiettivi di queste forme di sindacalismo che il confine tra lavoro e vita viene maggiormente messo in tensione. Queste lotte, infatti, tendono a rivendicare quella stessa commistione fra componenti salariali e reddituali, produttive e riproduttive, che il modello antropogenetico di produzione e il regime del workfare utilizzano per normare la forza lavoro e per estrarne valore.
E’ quindi su questo crinale tra lavoro e vita che osserviamo tracce di ripresa di un conflitto sul salario, che non è certo mai terminato, ma che ha bisogno di riconoscersi in una nuova forma. Questa volta, è bene sottolinearlo, a differenza delle esperienze alte del secolo scorso, il salario viene caricato di una nuova dimensione del conflitto, che non riguarda solo l’interno della produzione, ma tende a dispiegarsi lungo i gangli di quella “macchina estrattiva”, che si estende fino alla sfera riproduttiva.
Per estendersi dentro e fuori la produzione questa lotta sembra voler dare nuova sostanza alla relazione tra salario diretto e quello indiretto. Così, mentre nei luoghi della produzione, come nei casi della logistica che abbiamo citato, la lotta sul salario è direttamente collegata alla possibilità di ricomporre le soggettività lungo le catene del valore spazialmente dislocate, così le lotte di riappropriazione dei movimenti per la casa, le lotte sul welfare del comune, ricompongono nuove coalizioni sociali introno ad una rivendicazione di nuovo salario indiretto. In queste nuove movenze della lotta salariale che osserviamo in controluce, perché ancora non dispiegate in modo maturo, sembra voler rivivere una antica tensione delle lotte salariali. In fin dei conti le lotte sul salario non sono mai state solo lotte sulla distribuzione del prodotto sociale. E’ il pensiero economico dominate (soprattutto quello dei marginalisti) che ha sempre provato a rappresentarle in questo modo, quando lega il salario alla produttività marginale del lavoro. La lotta sul salario è sempre stata, contemporaneamente due cose: lotta per il miglioramento delle forme di vita, per accedere a nuovi livelli di riproduzione sociale, per liberarsi da forme di dominio, e lotta sul controllo del processo produttivo.
Ora, la tensione sul controllo del processo produttivo ha bisogno di estendersi oltre i confini della produzione fino a toccare i dispositivi di disciplinamento sulla vita contenuti nel workfare o nelle altre componenti del welfare residuale. Le lotte di riappropriazione del diritto all’abitare, o la nuova invenzione di forme mutualistiche, sembrano contenere contemporaneamente due dimensioni della lotta salariale: riappropriazione di valore oggettivato, il più delle volte, nella forma della ricchezza come rendita immobiliare e autogoverno dei servizi, come rottura dei meccanismi di comando contenuti nel welfare neoliberale. A differenza del passato la lotta sul salario indiretto procede parallelamente ad esperimenti di autogoverno, non si limita a chiedere l’erogazione di servizi allo Stato, ma pone immediatamente la questione del comune.
Di fronte a questo scenario, dato da questa tensione sul confine tra lavoro e vita, è insufficiente soffermarsi semplicemente sull’inadeguatezza delle forme sindacali tradizionali.
La permanenza e l’azione di una struttura organizzativa basata sulle categorie e sulle professioni è in questo quadro un dispositivo che agisce come disarticolazione dei punti più avanzati delle lotte, ponendosi spesso come un elemento di limitazione della loro estensione.
Del resto, è un fatto che anche all’interno dello stesso sindacato si è da tempo messo a tema questo problema: posizioni critiche animate in particolare da coloro che tentano di elaborare forme di organizzazione e rappresentanza dei lavoratori precari, hanno rilevato l’inadeguatezza della struttura tradizionale. Tuttavia il limite di queste critiche, che vedono nella struttura categoriale/professionale solo un ingombrante retaggio del passato scarsamente capace di interpretare la mutata composizione del lavoro, sottovalutano quanto essa sia oggi rimodellata dalle stesse centrali sindacali per guidare la transizione verso una forma differente di sindacato, capace di interpretare alcuni dei tratti di quella funzione amministrativa che abbiamo definito come neoliberale.
L’azione della struttura categoriale dei maggiori sindacati sui punti più avanzati delle lotte, agisce dunque precisamente come un dispositivo di de-socializzazione, ovvero in un senso inverso rispetto alle tendenze che abbiamo fino ad ora sinteticamente tratteggiato come caratteristiche degli attuali conflitti sociali.
Questa azione si presenta su entrambi i livello presi in considerazione. Da un lato, la composizione estensiva delle lotte viene continuamente ripiegata attorno alle differenziazioni settoriali, professionali e contrattuali della forza lavoro. Dall’altro, il modello di rappresentanza che si riferisce al «sindacato dei servizi», sebbene si ponga sullo stesso crinale tra lavoro e vita su cui insistono le lotte, al contempo ne presenta una versione rovesciata: definisce l’accesso alle prestazioni sulla base di una forma di radicale individualizzazione e di uno stretta strumentalizzazione alla missione definita dall’impresa e dallo Stato.
6. L’immaginazione programmatica
Due sono, a nostro modo di vedere, i maggiori limiti che questa varietà di esperienze si trovano oggi ad affrontare. E’ bene vederli: per far proseguire la ricerca e soprattutto per correggere il tiro dell’azione politica.
Il blocco (quando non la vera e propria repressione) delle capacità negoziali di queste lotte, pone immediatamente il problema di ripensare lo spazio dentro cui queste possono agire in modo efficace. Sono gli stessi processi di verticalizzazione della governance europea ad imporre questo salto. Questo, del resto, è oggi più che mai un piano di riflessione politica difficilmente aggirabile, tranne per chi ritiene che sia la riconquistata sovranità nazionale a rendere possibile il ristabilimento dei vecchi rapporti di forza. Fuori da questa illusione, rimane dunque il lavoro di costruzione di reti e coalizioni transnazionali capaci di misurarsi sull’unico piano sul quale è possibile pensare la costituzioni efficace di contropoteri sociali.
Il lavoro fino ad ora svolto generosamente in questa direzione con la creazione di spazi europei di discussione ed elaborazione comune deve oggi, crediamo, interrogarsi direttamente sulla sperimentazione di prototipi organizzativi.
Abbiamo visto come le esperienze del «sindacalismo sociale» insistono, oltre che sulla reinvenzione delle forme della negoziazione, sulla sperimentazione di nuove forme di mutualismo e di nuova istituzionalità.
Queste esperienza di nuova istituzionalità sono esposte, in particolare dai governi locali, al tentativo di essere assoggettate all’interno di un quadro di compatibilità capitalistica. L’attacco che in diverse città si sta conducendo nei confronti delle esperienze di autogestione, non punta infatti semplicemente alla loro chiusura, ma più sottilmente ad una loro «normalizzazione per via amministrativa». Crediamo che la forza e l’estensione di questo attacco vada interpretato pienamente come il tentativo di subordinare questi esperimenti nel quadro del «welfare residuale» e nella forma dell’«impresa sociale». È proprio in virtù, specie in Italia, della loro straordinaria proliferazione e del consenso che esse producono, che i poteri pubblici alternano alle armi della repressione il tentativo di sussumerle «formalmente» (per esempio, attraverso l’imposizione di norme fiscali sempre più stringenti). Queste strategie di cattura, oltre a prefigurare una sorta di estensione del dispositivo «estrattivo» sulle esperienze di autorganizzazione sociale, pongono immediatamente il problema di sviluppare un piano programmatico che articoli, da subito, la questione del «welfare del comune».
L’opportunità della dimensione europea e i meccanismi di “cattura” a cui sono esposte l’esperienze mutualistiche, pongono la necessità di una ricerca sulle questioni della moneta e il tema della sua possibile riappropriazione. Abbiamo voluto mostrare, sin qui, una nuova dimensione della lotta salariale. Questa lotta è a sua volta strettamente connessa alla rivendicazione di un reddito di base individuale e incondizionato e necessita di una ridefinizione sullo spazio europeo. Proviamo a dirla così: Marx ci aveva mostrato chiaramente il salario come comando sulla forza lavoro, espresso nei termini di una anticipazione monetaria dei padroni, finalizzata alla pura e semplice ricostituzione fisica dei corpi della forza lavoro. Più tardi, un economista critico come Sraffa, partendo da premesse diverse e con scopi certamente differenti da quelli di Marx, aveva insistito sulla possibilità di distinguere due aspetti interni alla medesima variabile salario (o due quote), dati dal rapporto tra “salario di riproduzione” e “salario di sovrappiù”. Il primo riproponeva l’ipotesi dei Classici e di Marx di un base salariale “minima”, che sarebbe stata tale, poiché compressa dal conflitto distributivo. Il secondo l’ipotesi di una quota di salario, eccedente ai livelli minimi, da sottrarre ai profitti.
Oggi si tratta di spezzare questa variabile salario e di porre la questione della riproduzione come diritto alla cooperazione sociale, collocandola al di fuori del comando del lavoro. E’ in questo senso che interpretiamo la necessità di un reddito di base individuale e incondizionato. Come anticipazione monetaria per il Comune. E si tratta, ancora più a fondo, di concepirlo come una anticipazione monetaria contrapposta a quella del salario e al credito fornite dalle banche. Una appropriazione della moneta per il Comune come mezzo per indebolire i molteplici dispositivi di comando sulla forza-lavoro e i meccanismi di sussunzione alla finanza.
Si tratta a livello europeo di immaginare una lotta dentro e contro questo circuito di produzione della moneta. Una lotta che a partire dalla richiesta di un reddito di base monetario, sappia contemporaneamente porre la questione di un “salario minimo europeo” per sottrarre l’iniziativa ai governi nazionali, e processi di riappropriazione di nuovi valori d’uso in cui accesso ai beni non è più separata dalla necessità di autogoverno degli stessi.
di Alberto De Nicola, Biagio Quattrocchi
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1. Inoltre, introduce nel disegno di legge delega Poletti, tra le tante misure, anche un riferimento ad un possibile «salario minimo» di cui ancora si sa poco su come opererà
2. Sugli aspetti delle mutazioni della geografia dell’accumulazione, facciamo riferimento ad un contributo di Sandro Mezzadra disponibile su Euronomade: http://www.euronomade.info/?p=465.)). Questa nuova geografia in formazione, produce, quindi, inedite spazialità e le organizzazioni sindacali tradizionali e il ruolo normativo degli Stati svolgono attivamente una funzione di ostacolo alla formazione di una coalizione sociale di lotta a livello europeo.
Iniziamo a chiederci: se di cambiamento interno al management della crisi si tratta, da dove hanno origine queste politiche «equitative» sui salari?
Bisogna probabilmente risalire all’instabilità finanziaria e ai meccanismi di trasmissione con l’economia reale. A far data dal 2012, è stato ampiamente sottolineato, che siamo entrati in una nuova fase della crisi finanziaria europea. Significativo è stato il ruolo svolto dalla politica monetaria della BCE. Draghi, nell’ormai famosa Global Investment Conference di Londra (26 Luglio) afferma: «The Ecb will be ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me, it will be enough». E’ l’inizio di quello che è stata definita la «politica monetaria non convenzionale». Lo scopo, sul piano politico, è stato quello di esercitare una relazione di comando sugli operatori del mercato finanziario, limitando le pressioni speculative sui debiti sovrani, che spingevano per una possibile implosione della zona euro ((Le operazioni di Outright Monetary Transactions sono state giustificate proprio dalla necessità di «affrontare le gravi distorsioni nella determinazione dei prezzi dei titoli di Stato di alcuni paesi dell’area dell’euro, connesse in particolare con i timori infondati degli investitori circa la reversibilità dell’euro». Si veda Rapporto Annuale della BCE 2013, p. 18. ↩
3. J. Toporowsky, The End of Finance: in Theory of Capital Market Inflation, Financial Derivates and Pension Fund Capitalism, Routledge, London, 2000.
4. Anche il successivo cambiamento della politica monetaria della Fed a seguito dell’annuncio del tapering (maggio 2013), non ha modificato questo effetto sul rapporto tra “capitale finanziario” e “capitale produttivo”.
5. Si consideri che negli Usa, pur risultando molto elevato, il livello di indebitamento è inferiore al picco massimo raggiunto nel terzo trimestre del 2008 (oltre 12 trilioni di dollari). Dal terzo trimestre 2013 e nel primo 2014, si registra un peggioramento dei livelli di indebitamento delle famiglie che ha raggiunto 11,52 trillioni di dollari, è risulta particolarmente cresciuta l’incidenza del debito degli studenti a fronte dei muti, rispetto alla fase pre-crisi. Si veda: http://www.newyorkfed.org/householdcredit/2013-q4/data/pdf/HHDC_2013Q4.pdf.
6. http://www.euronomade.info/?p=1643.
7. A. Barba, La redistribuzione del reddito nell’Italia di Maastricht, in L. Paggi (a cura di), Un’altra Italia in un’altra Europa, Carocci, Bologna, 2011
8. S. Mezzadra, Diritti di cittadinanza e Welfare State. Citizenship and Social Class di Tom Marshall cinquant’anni dopo, in T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, a cura di S. Mezzadra, Laterza, Bari-Roma, 2002.
9. T. H. Marshall,Lavoro e ricchezza (1945), in Ivi pp. 179-198, p. 182.
10. Si veda anche: http://www.euronomade.info/?p=2185.
11. Vedi A. Conti, Il compromesso postfordista, in La classe a venire numero della rivista, POSSE, 2007.