Le illusioni perdute della generazione trenta-quaranta
Il manifesto dei Trenta-Quarantenni che si autodefiniscono “generazione perduta” stringe il cuore e impone rispetto. Rispetto per il “dramma” di “dieci milioni di italiani” che, giunti alla mezza età, sono “senza speranze né futuro”. Rispetto per l'istinto di auto-compatimento che s'impadronisce di una vita quando si accorge di essere “il risultato di un esperimento dall'esito fallimentare, che ha avuto per laboratorio il Paese intero e noi come cavie”. Rispetto per chi, in nome della “questione generazionale”, avanza come Prometeo contro “chi pretende di tenerci ancora ai margini delle decisioni che riguardano il nostro presente ed il nostro futuro e quindi quello del Paese”.
Scrivono: “Vogliamo recuperare la dimensione perduta dell’impegno. Quella dimensione che ci porta ad essere cittadini attivi nel lavoro, nella società, nella famiglia. È una dimensione troppo spesso dimenticata in questo Paese in favore proprio di quei disvalori (clientelismo, corruzione, lottizzazioni) che ci hanno condotto nella situazione attuale”.
E' forte l'impressione di essere in presenza di 24 pugili suonati. I promotori del manifesto rientrano nel lavoro indipendente di ceto medio come giornalisti, docenti universitari precari architetti, e diversi avvocati, insomma in quella zona grigia dove i “giovani” professionisti vivono accanto al “precariato”, e spesso lo sono pienamente.
Se il presidente del Consiglio Mario Monti non avesse compatito – in una dichiarazione da liberale compassionevole – la loro “generazione perduta” sembra proprio che queste persone – da quanto scrivono – non sarebbero mai diventati “cittadini attivi” nel lavoro, nella società, nella famiglia. E' un paradosso, oppure rivela l'impoliticità della vita condotta fino ad oggi da un'intera generazione, e in particolare di chi svolge un lavoro della conoscenza. Sta di fatto che, pur in presenza di parole inquietanti e inaccettabili da parte di Monti:“limitare i danni per questa generazione e non ripetere gli errori del passato, a non creare altre, di generazioni perdute” i trentenni-quarantenni reagiscono in maniera altrettanto impolitica e propongono cinque “tag”. Si esprimono proprio così, pagando forse un prezzo eccessivo al linguaggio da social network applicato ingenuamente ad un manifesto politico – non sono gli unici, lo fanno i “rottamatori” di Renzi, il movimento 5 stelle in ascesa, è più cool. E così ribadiscono l'ideologia agitata confusamente anche (ma non solo) dal governo “tecnico”: “Rispetto – Merito – Impegno – Progetto – Fiducia”.
Agire sul terreno di Monti, spinge a sposarne soluzioni che non sono né chiare né evocate nell'intervista scandalosa, per non parlare di quelle approntate altrove. Tutto questo depotenzia il significato “politico” (è un eufemismo) del manifesto. Ma allo stesso tempo lo rende imprevedibilmente interessante da un altro punto di vista: l'impreparazione culturale e politica di un settore non maggioritario, ma certamente significativo, del lavoro della conoscenza rispetto alla crisi devastante che sta vivendo e, quindi, rispetto alla crisi che vive anche il Paese.
Illusioni perdute
Parlare di “generazione” significa dividersi tra un conflitto edipico (prendere il posto dei padri, in una società che dipende da una struttura familistica forte e interpreta i rapporti sociali come rapporti di filiazione e di cooptazione) e la richiesta di una selezione meritocratica capace di distinguere i competenti dai non preparati, gli operosi dagli oziosi, seguendo criteri oggettivi di valutazione stabiliti dall’alto e ai quali il candidato deve aderire, per essere giudicato adatto ad un lavoro.
E' anche il caso degli autori del manifesto di questa “generazione perduta” dagli incerti confini. Dieci milioni è una cifra che supera quella dei poveri ufficialmente censiti, ad esempio, e non si sa se si riferisce anche ai diciottenni. Comunque sia anche in questo caso avanza l’idea che i “giovani” tra i 18 e i 35 anni, in particolare quelli laureati, specializzati, masterizzati abbiano diritto ad occupare un posto nelle file della “classe dirigente”.
Lo spazio per quella che viene definita una “normale” operazione di sostituzione dei dirigenti più anziani, appartenenti alla generazione dei padri, sarebbe dunque ostruito da un sistema di potere che non può, e non vuole, ricevere la linfa vitale delle competenze di cui le nuove generazioni sarebbero portatrici. Questo blocco verso l’alto di un movimento “naturale” di chi ha pochi anni, preparazione e potenzialità da implementare di slancio sul lavoro, si rispecchia nelle condizioni semi-schiavistica alle quali vengono ridotti i giovani, tra stage e tirocini non pagati, inutili a trovare un collocamento stabile e retribuito, per non parlare della mobilità sociale e professionale negata sia ai figli dei poveri – che cercano sul lavoro il riscatto sociale – che ai figli dei ricchi, in cerca di un posto da dirigente che otterranno dopo i quarant’anni. Forse anche con merito.
La base ideologica di questa, e di altre campagne, è il diritto naturale che il sistema politico e quello delle corporazioni tradisce a favore dei diritti della nobiltà di toga, cioè la “casta” dei dignitari dell’industria e dello Stato, i discendenti dei genitori che hanno acquisito a titolo onorifico o mediante raccomandazione e cooptazione una carica politica, economica, sociale di tipo dirigenziale. È indubbio che sin dalla Prima Repubblica questo sistema sia diventato in Italia uno dei pochi strumenti non solo, e non tanto, per “fare carriera”, ma per trovare un’occupazione stabile a tutti i livelli. Ma è altrettanto evidente che non basta essere “giovani”, “professionisti”, “eccellenti” e per questo meritare un'assunzione. Il diritto naturale – essere più giovani e quindi capaci di governare – non basta per sconfiggere il suo gemello cattivo: il corporativismo e il familismo che governa la selezione delle “classi dirigenti”. La generazione precedente (quella del 68?) ha evocato lo stesso diritto per occupare la plancia di comando. Non è escluso che, nelle stesse condizioni, anche quella attuale farebbe la stessa cosa. In nome del diritto naturale.
Il timore di definirsi “lavoratori”
Tra le righe di questo manifesto si avverte la presenza dei problemi del lavoro autonomo a partita Iva, e in particolare di quello della conoscenza, che lavora nella produzione dei contenuti o in quella degli stili di vita, così come nel campo della consulenza, dei servizi o dell'assistenza giuridica al cliente. E' da questo mondo composito, e non uniforme, che è nata due anni fa la retorica sulla “generazione” che si sente (perché lo è) condannata da un paese alla marginalità, alla povertà, alla svalorizzazione delle competenze e delle funzioni acquisite nel percorso formativo e professionale. Una retorica che evoca una categoria indistinta, e politicamente neutra (la generazione, appunto) per alludere ad un orizzonte universale di cui è evidentemente sprovvista.
E tuttavia si tratta di una retorica trasversale che ha contaminato ambienti Confindustriali (Il presidente della Luiss Pier Luigi Celli che suggerisce, via lettera su Repubblica (poi diventata libro), al figlio di emigrare all'estero perché la generazione dei padri ha bloccato ogni speranza di carriera in questo paese; la Cgil con l'esperienza del cartello “Il nostro tempo adesso” per giungere a quello dei lavoratori dell'editoria “Tq” (evidentemente citati, senza farne il nome). In quest'ultimo caso – a differenza del manifesto della “generazione perduta” – la “generazione” viene intesa come condizione universale di uno status specifico: quello di “lavoratori della conoscenza”.
Una definizione che, al momento del lancio di Tq un anno fa, ha provocato un polverone. Alludeva apertamente alla posizione lavorativa di soggetti che, fino ad oggi, non si sono mai percepiti come “lavoratori” (ma come autori, intellettuali, funzionari di alto livello), né sono mai stati percepiti pubblicamente come una presenza se non opaca oppure vincolata ad uno status privilegiato. In Tq si è molto discusso su questa definizione che per alcuni rappresentava una diminuzione del senso di sé o della categoria a cui sentono di appartenere.
Non è un caso che in questo manifesto non si faccia alcun accenno alla condizione del lavoratore della conoscenza, ma solo allo status di una generazione che aspira all'eccellenza. Resta ancora molto difficile costruire un percorso di auto-riconoscimento, e di pratica, a partire dalla coscienza di essere “lavoratori della conoscenza”.
E' tuttavia certa l'impossibilità di farlo a partire dall'idea di “generazione”. Chi lo fa si accontenta di poco, o nulla: autoconsolazione vittimistica di un'”eccellenza” auto-conferita; subalternità ad un diritto superiore di scegliere il migliore, in nome di regole e principi affermati dall'alto come una religione e non verificati, o concordati, attraverso un processo di condivisione e di elaborazione collettiva.
La sindrome da classe dirigente
La confessione di Monti avrebbe dovuto sollevare un moto di indignazione. E invece i “giovani” professionisti reagiscono richiamandosi ai suoi stessi “valori”, cioè all'arma suprema dell'individualismo, il “merito”, unico strumento per riconoscere l'eccellenza di un soggetto rispetto alla massa dei propri simili, oltre che la dignità di essere primus inter parestra “colleghi”: “Vogliamo impegnarci per l’affermazione di una vera cultura del merito che premi i migliori e porti con sé un’etica delle responsabilità per la quale essere giovani non debba essere un vantaggio, ma non rappresenti nemmeno un ostacolo”
Anche su questo punto, il manifesto della “generazione perduta” rappresenta un punto di vista anacronistico rispetto ad un problema reale: l'accesso all'esercizio di una professione, la valorizzazione del lavoro della conoscenza, non vengono mai considerati come il risvolto – pur grave – dell'assoluta mancanza di riconoscimento generale dei diritti sociali, bensì come un attacco allo status che ha perso la distinzione di un tempo. E che, per diritto generazionale (o forse per le antiche prerogative riconosciute al lavoro professionale e al ceto medio oggi non più reali), dev'essere difeso.
Da qui l'effetto involontariamente comico provocato dall'idea che il proprio percorso professionale si identifichi con il destino del paese. Intenerisce anche il desiderio di non delegare più ad altri il “compito di scrivere il proprio futuro e quello dell’Italia”. Questo sottile eccesso nell'autostima deriva dal fatto che chi ha firmato il manifesto si percepisce come una potenziale “classe dirigente” che si considera una “risorsa” per il paese e ha deciso – finalmente – di “avere fiducia in se stessa”. E, così facendo, se è possibile, avviare una “progettualità individuale che ci permetta di avere un mutuo, comprare casa, fare figli”.
C'è un limite in questa, condivisibile, esigenza. L'idea cioè che per questa generazione sia riservato il destino del ceto medio che aveva il ruolo centrale di garantire l'intermediazione sociale. Ed è su questa aspirazione che un tempo misurava la sua aspirazione ad essere “classe dirigente”. Per milioni di persone, oggi in Italia come altrove, il diritto ad una vita degna deve misurarsi su uno scenario completamente diverso dove i lavoratori della conoscenza condividono la stessa condizione con soggetti diversi dal ceto delle professioni liberali, intellettuali o creative: operai, artigiani, micro-imprenditori, come una porzione ormai maggioritaria nel pubblico impiego. Di questo si parla, quando parliamo di “giovani” o “generazione”.
Il Terzo Stato dei trenta-quarantenni
La difficoltà (psicologica, sociale, culturale), per non dire vergogna sociale, dei trenta-quarantenni nel vedere la distinzione del proprio status rovinare verso la precarietà non aiuta a trasformare la negazione dell'autonomia (la prerogativa di una professione autonoma, ma anche della cittadinanza in generale) in un problema politico. E conferma un'illusione: per ridare speranza al paese bisogna ricostruire il consenso politico del ceto medio rispetto al moderatismo (tecnocratico o meritocratico). Una soluzione del tutto coerente con la politica nazionale. Una moda, e non solo di questi tempi.
Sembra di leggere il manifesto dove l'abate Sièyes chiedeva il riconoscimento dei diritti civili (professionali) del Terzo Stato (la borghesia). Parafrasandolo: il Terzo Stato degli Trenta-quarantenni non è tutto e vuole solo per sé i diritti politici per guidare lo Stato. Ha le competenze per farlo, le ha maturate sul mercato il cui giudizio è insindacabile come quello sulla professionalità. Il teorema si chiude sul seguente assunto: è impossibile che la nazione divenga libera se al Terzo Stato, e solo a quello, non viene riconosciuta la rappresentanza politica.
I Trenta-Quarantenni, come il Terzo Stato, hanno ormai maturato le competenze necessarie per svolgere le funzioni di rappresentanza, dirigenza e governo dell’amministrazione statale, mentre il vecchio regime continuava a ridimensionare questi saperi nella dimensione “privata” dell’economia, dove i borghesi avevano raggiunto un’eccellenza penalizzata dal monopolio delle cariche pubbliche, appannaggio delle “caste”.
Ma di tempo ne è passato da Sièyes, e da quell'antica – eroica – idea di “borghesia”. Il lavoro indipendente, e in generale il ceto medio, oggi non è più un elemento di stabilità sociale e politica, ma è il soggetto dove sono più forti i processi di sfruttamento, di negazione dei diritti fondamentali, di vera e propria liquidazione di percorsi esistenziali e professionali da parte del mercato, dell'università e della ricerca, dello Stato.
Difficile pensare che una soluzione possa essere trovata nell'alveo di quella cultura moderata che ha creato questa situazione. Non è tuttavia escluso che il lavoro indipendente, almeno nella sua parte visibile e organizzata, continuerà a crederlo. Penalizzando la propria condizione e un'immagine pubblica non certo simpatizzante.
Noi siamo il Quinto Stato
Il nostro problema non è quello del “merito”, bensì quello della cittadinanza, che non può essere fondata sulla disponibilità ad essere laboriosi da parte dei figli della nazione, né sulla meritocrazia che misura solo il valore individuale di una competenza contro il valore di un’altra.
È esplosa l’unità di misura che ha fondato la cittadella del lavoro, e lo Stato sociale che governava gli scompensi individuali e le anomalie del sistema riconducendole alle misure standard di una conflittualità fisiologica e naturale. La perdita della misura è l’ossessione di tutti i governi più recenti: l’impresa, la competizione, l’eccellenza, insomma tutti i valori dell’etica dell’“imprenditore di se stesso” valgono un centesimo bucato in questa crisi che ha sconvolto tutte le misure.
Oggi chi chiede una rappresentanza e la giustizia sociale non è una classe come la “borghesia”, ma è la condizione generale dei viventi, di nazionalità e culture molto diverse, appartenenti a classi e professioni non conciliabili in un solo status, ma riconoscibili in una condizione comune. Chiamiamola “Quinto Stato”.
di Roberto Ciccarelli