News

Le riforme, il debito, la crisi, l’Europa

0
0

Sergio Cesaratto (Roma, 1955) è Professore ordinario di Politica fiscale e monetaria dell’Unione Monetaria Europea e di Economia della crescita e dello sviluppo presso il Dipartimento di Economia Politica e Statistica (DEPS) dell’Università degli Studi di Siena.

Dopo gli studi nelle università di Roma La Sapienza e di Manchester si è occupato nella sua attività di ricerca di teoria della crescita e analisi dei sistemi pensionistici in una prospettiva non ortodossa.

Ha pubblicato numerosi contributi scientifici su riviste italiane e internazionali, fra queste Research Policy, Cambridge Journal of Economics e Review of Political Economy, oltre che contributi a volumi in lingua inglese e un libro di economia dei sistemi pensionistici con l’editore Edward Elgar. Ha scritto numerosi articoli su Il Manifesto, Economia e Politica e Micromega.

È anche curatore dei blog http://politicaeconomiablog.blogspot.com/ e http://documentoeconomisti.blogspot.com/ e, insieme a Massimo Pivetti, dell’e-book “Oltre l’austerità” scaricabile gratuitamente online.

Buongiorno,

in questi giorni è sulla bocca di tutti il bonus da 80 euro voluto dal Governo Renzi, ormai in fase di attuazione grazie alle linee guida pubblicate oggi dall’Agenzia delle Entrate. Uno specchietto per le allodole, in vista delle elezioni europee o una misura di politica economica realmente utile per far ripartire i consumi?

80 euro in più al mese sono una cosa importante per milioni di famiglie e quindi, di per sé, la misura è giusta e utile a far ripartire i consumi. Il problema è che a fronte di essa si operano tagli della spesa pubblica inclusi sanità ed enti locali. Sicché i cittadini si vedranno togliere con una mano ciò che vien dato loro con l’altra. Certo, pochi maledetti e subito, ma vedremo peggiorare trasporti pubblici e file d’attesa per le cure mediche. Ricordiamo che nonostante gli sprechi lo Stato italiano è da più di vent’anni assai parsimonioso, vale a dire spende meno di quanto incassa. E’ infatti la spesa per interessi sul debito a portarlo in deficit. E il debito non fu frutto dell’eccesso di spesa ma della tolleranza dell’evasione fiscale e dagli alti tassi di interesse che pagammo negli anni 1980 per stare nel sistema monetario europeo (il padre dell’euro). Combattere gli sprechi non è comunque facile e le spending review non sono altro che tagli lineari mascherati. Gli sprechi si combattono con un ceto politico che si occupa quotidianamente e meticolosamente della macchina pubblica invece di chiacchierare su inutili riforme.

Almeno per il 2015 il DEF prevede che il debito pubblico continuerà a crescere e che l’aumento del PIL sarà molto contenuto (+0,8%). Il Governo Renzi sta mettendo in campo gli strumenti giusti per uscire dalla crisi o, anche in questo caso, si tratta di propaganda?

A meno di miracoli l’attesa del +0,8% è ottimistica, e comunque con questa crescita l’occupazione non aumenta. La situazione è drammatica, ormai la disoccupazione colpisce i nostri amici e parenti, e i giovani anche ben formati non hanno prospettive. Il crollo del mercato interno sta distruggendo il tessuto industriale italiano. Per rilanciare crescita e occupazione serve il rilancio in grande stile della domanda aggregata e questo può farlo solo il settore pubblico, invertendo quindi il segno alle politiche di austerità. Questo può esser fatto solo a livello europeo. Purtroppo né Letta né Renzi lo capiscono, per formazione o per incompetenza, e dunque il nostro paese non si batte a sufficienza. Sono persino peggio di Monti che, a tratti, ci illuse di stare trattando a livello europeo. Il governo Renzi è davvero una compagine di sprovveduti bellocce e bellocci.

Sul suo blog (http://politicaeconomiablog.blogspot.com/) Lei ha recentemente sostenuto che le stime del DEF sono troppo ottimistiche e che viene tenuto in scarsa considerazione il rapporto deficit/PIL. Perché è così importante, in una prospettiva di medio periodo stabilizzare il debito pubblico?

No, del rispetto dei vincoli europei si tiene fin troppo conto! Abbiamo documentato come l’applicazione del “fiscal compact” che impone all’Italia la riduzione del rapporto debito pubblico/Pil al 60% in vent’anni è “mission impossible”, che distruggerebbe il Paese peggiorando quel rapporto. Nessuna persona seria pensa sia applicabile. Esso rimane però come un monito a continuare una rigida austerità. Quello che proponiamo è una manovra europea a due tempi: nel breve periodo si tratta di mollare i cordoni della spesa anche a costo di maggiori disavanzi per far riprendere la crescita. In questa fase si dovrebbe anche pensare a forme di ristrutturazione dei debiti in modo da abbassarne il costo in termini di tassi di interesse. Nel medio periodo poi la ripresa della crescita e i minori tassi sul debito sono compatibili con la stabilizzazione del rapporto debito/Pil (in luogo di assurdi piani di riduzione). Tutto questo è ragionevole. Ma l’impressione è che a parte Fassina (che però è intrappolato nel PD) non vi siano politici italiani in grado di recepire l’importanza di avere proposte alternative su cui battersi in Europa. Il livello dei candidati alle europee è, con poche eccezioni, deprimente.

Quali sono i pericoli di una deroga del fiscal compact per l’Italia?

Non c’è nessun pericolo. Con crescita e tassi di interesse bassi nessun debito, pubblico o privato, è un problema. Attenzione però, la questione non va posta in termini di deroga. Questo perché da un lato è l’insieme dell’Europa che deve adottare politiche espansive, sennò l’espansione in un solo paese si tradurrebbe in maggiori importazioni dagli altri paesi senza un corrispondente aumento delle esportazioni verso in partner. Dall’altro lato, una deroga ci sarà nei fatti poiché il fiscal compact è inapplicabile ma, ripeto, costituirà comunque un’arma di ricatto. E’ l’intera logica che va ribaltata. Logica che, ricordiamo, si basa sull’idea che l’origine della crisi sia fiscale – un eccesso di spesa pubblica. Non è vero.

Anche la disoccupazione non sembra aver dato segnali rassicuranti negli ultimi mesi. Le misure del Jobs Act sono apprezzabili o, anche in questo ambito sono state fatte scelte discutibili?

La scommessa che il governo fa col Jobs Act è che la disponibilità di contratti a termine renda più probabile che i timidi segni di ripresa si traducano qualche posto di lavoro in più. Questo perché le imprese devono essere sicure di poter licenziare i lavoratori se la ripresa (com’è probabile) si rivelasse effimera. Vede, qualunque sia la forma contrattuale, a termine o indeterminata, il numero di posti di lavoro non dipende dalla veste giuridica dei contratti, ma dalla domanda aggregata. Se vi fossero solo contratti flessibili l’occupazione oscillerebbe di più, cioè le imprese assumerebbero di più nella fase alta del ciclo, licenziando tuttavia di più nella fase bassa. In media il numero di posti di lavoro sarebbe il medesimo di quello che si avrebbe se i contratti fossero tutti a tempo indeterminato (in questo caso le imprese assumerebbero di meno nella fase alta ma licenzierebbero anche di meno nella fase bassa). Quindi il problema è il sostegno della domanda aggregata ciò che renderebbe in gran parte inutile tutto il dibattito sul mercato del lavoro. Pensare che, dunque, l’occupazione nel lungo periodo aumenti per il Jobs Act è una mera bugia. Si deprimeranno diritti e redditi deprimendo ancor di più la domanda interna.

Nei suoi studi Lei si è occupato anche del sistema pensionistico. Come giudica a tal proposito la recente riforma Fornero? Più in generale è un settore che necessita di (nuove) riforme strutturali?

Intanto va rilevato che l’allungamento dell’età pensionistica ha comportato minori opportunità di lavoro per i più giovani, come gli economisti “eterodossi” han da sempre sostenuto. Quello che accade nel sistema pensionistico va infatti sempre visto nell’ambito economico generale di cui esso è parte. Da questo punto di vista la situazione è preoccupante, non tanto per la sostenibilità finanziaria del sistema pubblico ma da quello della sostenibilità sociale. Vediamo meglio. Con la riforma contributiva degli anni ’90 dello scorso secolo il sistema è stato reso finanziariamente sostenibile. Vi sono infatti dei meccanismi automatici per cui le pensioni erogate dipendono dall’andamento del Pil. Se lei oggi versa 100 euro di contributi e il Pil decresce del 2%, lei domani riceverà 98 di pensione. Da un lato questo rende il sistema contabilmente sostenibile, nel senso che se l’economia va male – per cui ci sono meno lavoratori attivi a versare i contributi – l’ammontare di pensioni erogate automaticamente diminuisce. Ma dall’altro questo ha una ricaduta sociale sui redditi dei pensionati futuri poiché l’importo delle pensioni cade. E questo si aggiunge al vero dramma: ormai da più di due decenni assistiamo a generazioni di giovani precari che accumulano pochi contributi, e ora le nuove generazioni disoccupate neppure quelli. Questa è una catastrofe sociale epocale, presente e futura. Non c’è soluzione tecnica interna al sistema pensionistico. Di nuovo solo la ripresa della crescita a livello europeo trainata dalla domanda può ricreare le condizioni per un sistema pensionistico socialmente soddisfacente, non solo finanziariamente equilibrato.

Uno dei pochi punti di continuità del Governo Renzi con tutti i governi precedenti sembra essere la mancanza di un piano industriale per il nostro Paese. Perché è un aspetto così poco considerato da chiunque sieda a Palazzo Chigi?

Sì, se in luogo di tanto chiacchiericcio su riforme gattopardesche si curasse di più la manutenzione del paese, allora la politica industriale tornerebbe al centro. Ci sono vari problemi, tuttavia. In primo luogo l’Europa (sempre lei!) ci impedisce politiche incisive, volte per esempio al salvataggio o alla creazione diretta di imprese strategiche. Ma con la volontà politica tali impedimenti possono essere aggirati. Ma, in secondo luogo, per intervenire servono i quattrini e qui, come in altri casi, l’assenza di una banca centrale sovrana si fa sentire. In terzo luogo si deve essere però realistici: in un mondo tecnologicamente avanzato non è facile impiantare settori innovativi, ma questo non significa rinunciare. Servono soldi, i primis per la ricerca. Serve una classe politica coscienziosa che segua i progetti. Purtroppo tutto questo non si inventa. Il Paese e chi lo governa sono quelli che sono. Per questo c’è chi come me che rimpiange la liretta. Finita l’epoca della ricostruzione in cui il Paese sembrò avere una classe di manager pubblici e privati degna di eccellenza ci rimase la politica industriale fatta di svalutazioni. Meglio di niente. L’occasione l’Italia la perse al principio degli anni 1960 quando sull’onda del miracolo economico si rispose in maniera conservatrice alle rivendicazioni sociali invece di andare loro incontro modernizzando il Paese con più stato sociale e più innovazione tecnologica. Si cercò il conflitto. Poi le cose andarono come andarono.

I sondaggi relativi alle elezione europee prevedono, oltre all’astensionismo, un infoltirsi delle schiere degli euroscettici. Perché l’Europa è così lontana dal sentire comune?

Il nostro è un Paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto. Quest’ultima di per sé non guasta se non fosse andata, in particolare a sinistra, troppo oltre dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo ottocentesco, quello del gold standard appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale. Quest’ultimo è il playing field naturale della democrazia, del conflitto democratico su come creare e distribuire le risorse. Una volta svuotato dei sui poteri, trasferiti a livello sovra-nazionale, con lo Stato nazionale scompare la democrazia. Fior di economisti hanno sostenuto l’incompatibilità fra moneta unica e democrazia! Il Parlamento europeo non può sostituire le democrazie nazionali perché troppo cacofonico. Lì finiscono per prevalere gli interessi nazionali mentre le classi lavoratrici nazionali non hanno più un terreno rivendicativo su cui esprimersi. A me pare, contrariamente alle accuse mosse dagli utopisti delle liste di sinistra, che Stati sovrani siano il presupposto di democrazia e cooperazione internazionale, mentre sia l’europeismo superficiale a fomentare il nazionalismo: dio ci scampi dagli utopisti!

Il rigore europeo è uno dei fattori che allontano maggiormente l’opinione pubblica da Bruxelles. Quale dovrebbe la direzione da imprimere alle politiche economiche (e di bilancio) dell’Europa affinché risultino di effettivo sostegno all’Italia di oggi?

Come abbiamo già detto, l’Europa dovrebbe invertire il segno delle politiche di bilancio con un forte sostegno della BCE nel controllo dei tassi di interesse e nell’agevolare forme di ristrutturazione del debito (vi sono varie proposte in merito). Il dramma è che la Germania non è interessata a quest’Europa. Essa ha un modello mercantilista (export-led) basato su un forte ordine sociale interno accompagnato dalla moderazione salariale e fiscale che non intende mettere in forse (e ciò è comprensibile). Quindi è un bel pasticcio. Parlare di Europe federali vuol dire vaneggiare. Una forte affermazione delle forze anti-euro è dunque benvenuta, se smuoverà le acque, anche se sia chiaro che in nessun senso personalmente appoggio compagini xenofobe o di destra con cui, a differenza di qualche collega (o presunto tale), non intendo avere rapporti. La sinistra avrebbe dovuto riprendere la bandiera della nostra libertà nazionale in un senso democratico e positivo, ma ne ha paura. Questo è un dramma. Una rottura consensuale dell’euro sarebbe benvenuta, ma è un processo assai, forse troppo complicato. Ma certo, se l’Europa ci prova a chiederci di applicare il fiscal compact, allora la rottura se la saranno cercata. Ricordiamo poi che tutto il dramma europeo cade in un quadro mondiale a sua volta assai complesso: dal pericolo di una “stagnazione secolare” del capitalismo – anche alla luce delle crescenti disuguaglianze che mortificano la domanda aggregata oltre che le coscienze-, alla sfida epocale dei Paesi emergenti fatta del combinato disposto di bassi salari e crescente tecnologia.

Quali effetti continueranno a produrre la mancanza di un’unione politica e di una reale unione bancaria sulla Comunità Europea e sulla sua (fragile) unione monetaria?

Una vera unione politica, che implicherebbe uguali diritti sociali, non è e non sarà nel futuro prevedibile all’ordine del giorno. Dimentichiamoci queste stupide utopie. L’unione bancaria è la solita storia del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Le risorse a disposizione sono poche è v’è solo da sperare che una più efficace sorveglianza da parte della BCE eviti future sorprese. Se vi saranno, il loro peso ricadrà soprattutto sugli Stati nazionali a dimostrazione che l’unione bancaria europea è poca cosa. Naturalmente per la Germania, che quattrini ne ha, questo non è un problema. Come si vede in questo come in altri– in primis quello della disoccupazione – i problemi rimangono nazionali ma un vero Stato nazionale non c’è più. E l’Europa, al momento del bisogno, semplicemente non c’è.

ForexInfo intervista Sergio Cesaratto