Marx e Keynes, per non banalizzare le forme dei conflitti di classe
Può chi si schiera a favore della classe lavoratrice determinare un corto circuito tale da ostacolare lo stesso processo di emancipazione per cui si batte? Purtroppo sì. Come ripete insistentemente Marx, prendendosela con le lotte fallimentari dei suoi contemporanei, una cosa è essere depositari della volontà di cambiare le cose, un’altra è aver sviluppato la capacità di farlo.
Nel corso del ristagno quarantennale che stiamo attraversando il movimento ha ignorato questa differenza essenziale, commettendo un errore del tutto analogo a quello dei precedenti rivolgimenti storici. Marx definisce questo errore come un processo di “naturalizzazione” della propria condizione e dei propri bisogni. E’ evidente, infatti, che se nei bisogni che si cerca di soddisfare non c’è alcun problema, e cioè se le condizioni e il significato della loro soddisfazione sono immediatamente intelligibili, la volontà così com’è appare senz’altro un forza adeguata al perseguimento dello scopo. Uno sa quello che vuole e come può ottenerlo, cosicché tutto si riduce ad un “fare” corrispondente, e se le cose non vengono fatte ciò accade per la mancanza di “una volontà politica” di agire. Se invece lo stesso prender corpo del bisogno e le implicazioni della sua eventuale soddisfazione non sono immediatamente trasparenti, perché conseguenza di svolgimenti contraddittori dello sviluppo, che hanno fatto emergere condizioni nuove, che bisogna ancora imparare a metabolizzare, tutto cambia. Come sottolinea Marx nella III tesi su Feuerbach, la modificazione delle circostanze, che si vuole realizzare per soddisfare il bisogno, “coincide”, in questo caso, con un processo di autotrasformazione dell’individualità sociale che solo se interviene può renderla realizzabile.
Il senso comune contro la storia.
A partire dalla metà degli anni Settanta è iniziato un processo di logoramento di un potere dei lavoratori che, nei due decenni precedenti, era scaturito dalle lotte di classe (che si concretizzava nel pieno impiego, in salari elevati e in condizioni di lavoro ragionevoli).
La conclusione di quel processo è oggi davanti ai nostri occhi, col sopravvenire di una quasi totale impotenza dei lavoratori. Parafrasando il Marx del Diciotto Brumaio, si può dire che “pare quasi che la società sia tornata indietro oltre il suo punto di partenza; e infatti perché la rivoluzione moderna seriamente riesca, essa deve innanzi tutto creare il punto di partenza; e prepararne la situazione, le condizioni e i rapporti” (Karl Marx, Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte). In termini semplici, affinché le conquiste sociali si consolidino è necessario che esse diano corpo ad una cultura, che le sostanzia come manifestazione irrinunciabile di una nuova condizione umana e le ponga a fondamento di una nuova formazione sociale.
La tesi che qui cercherò di sviluppare è che quando sono iniziate le difficoltà del welfare, le precedenti conquiste hanno dimostrato di non essersi affatto consolidate, fino al punto di rappresentare almeno l’embrione di una nuova cultura. Alla prima fase di sgretolamento delle nuove istituzioni è poi subentrata una vera e propria rotta, che ci costringe a ricominciare dal punto di partenza, ciò che investe direttamente le forme della lotta di classe. Per chiarire quanto sto cercando di dire prenderò spunto da un articolo di Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 17 gennaio 2010. Scrive Della Loggia, “la vulgata secondo la quale la democrazia è tale perché riconosce eguale valore ai diritti politici e ai diritti sociali – che però sarebbero in sostanza quelli del ‘lavoro’ – è sbagliata. Questa equiparazione si presta a molte obiezioni: la più importante è che mentre per essere riconosciuti ed esercitati i diritti politici (eguaglianza di fronte alla legge, elettorato attivo e passivo, diritto alla libertà personale, di parola, diritto di sciopero, ecc. ecc.) non necessitano di alcun contesto esterno particolarmente favorevole, viceversa il godimento dei diritti cosiddetti sociali e del lavoro in specie è perlopiù possibile solo se vi è un contesto economico esterno favorevole … Non poggiano, né possono mai poggiare su alcuna base solida definitiva”. Ora, a parte la stupidaggine di sostenere che, per essere goduti, i diritti politici non avrebbero bisogno di condizioni che permettano di esercitarli, sta di fatto che nella società è senz’altro diffusa la convinzione che i diritti sociali dipendano dalla “disponibilità di risorse”, e in periodi di “vacche magre” possano e debbano essere drasticamente ridimensionati: il “nuovo Welfare” di cui molti vagheggiano in evidente malafede.
Ciò che si cerca di reintrodurre con questa rappresentazione è la convinzione che debba esserci una dipendenza dei diritti sociali dal casuale procedere del processo riproduttivo. Se questo va bene “c’è trippa per gatti”, se va male bisogna fare digiuno. Ma questa argomentazione poteva avere un senso molto tempo fa, quando gli esseri umani non si erano ancora emancipati da una totale subordinazione alla natura, mentre oggi i disordini riproduttivi di cui soffriamo non sono in alcun modo collegati ai capricci della natura, e si presentano piuttosto come fenomeni connessi all’inadeguatezza dei rapporti sociali prevalenti (che includono quelli con la natura). La lenta conquista dei diritti sociali, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale – e qui è dove Della Loggia sbaglia – è conseguita all’acquisizione di questa consapevolezza.
Se le cose stessero nel modo indicato da Della Loggia, il Welfare keynesiano non si distinguerebbe dallo Stato sociale bismarckiano, e cioè nel corso del Novecento non ci sarebbe stato uno sviluppo economico e sociale. Quello bismarckiano era, appunto, uno stato compassionevole che doveva limitarsi a “soccorrere i poveri”. Il principio dell’azione pubblica era caritatevole, e puntava solo a mitigare i fenomeni negativi, senza cercare di spiegarli o di prevenirli. Come suol dirsi aveva un ruolo solo redistributivo. Il keynesismo interviene su una base completamente diversa. Scrive infatti Keynes nel 1933: “se la nostra povertà fosse dovuta a terremoti, carestie o guerre – se ci mancassero i mezzi materiali e le risorse per produrli, non potremmo sperare di trovare la via per la prosperità altrimenti che con il duro lavoro, l’austerità e l’innovazione tecnologica. Tuttavia le nostre difficoltà sono evidentemente d’altra natura. Scaturiscono da qualche fallimento nelle costruzioni immateriali della mente, dal funzionamento dei motivi che sottostanno alle decisioni e alle azioni volontarie che sono necessarie a mettere in moto le risorse e i mezzi tecnici di cui già disponiamo” (John M. Keynes, The means to prosperity). Detto a chiare lettere, i rapporti capitalistici non sono più in grado, da inizio Novecento, di mediare uno sviluppo e lasciano andare sprecata una quantità enorme di risorse disponibili. Nel corso delle crisi e delle fasi di ristagno “non è dunque ragionevole immaginare che la soluzione del problema possa scaturire dall’azione individuale.” Non c’è cioè da aspettarsi che gli individui siano in grado di elaborare una soluzione col loro approccio privato. “E’ la comunità organizzata che deve trovare modi saggi per spendere ed avviare il processo di sviluppo. Ecco perché”, scrive in conclusione, “pongo così tanto l’accento sull’intervento pubblico”, che viene chiamato a svolgere un ruolo produttivo (in L’assurdità dei sacrifici,Manifestolibri).
All’epoca Keynes non fu ascoltato e ovunque, in Europa, si procedette a drastici tagli della spesa pubblica e privata, che aggravarono ulteriormente la situazione. Quando finalmente in piena guerra mondiale, nel 1942, si cominciò a recepire il keynesismo (il New Deal roosveltiano, come spiega bene Ester Fano, fu un’esperienza molto confusa e contraddittoria) la base concettuale della politica economica fu esattamente opposta rispetto a quella che, insieme al senso comune oggi prevalente, Della Loggia propugna. Il suo fulcro stava nel riconoscimento del fatto che i diritti sociali permettevano di godere coerentemente di un contesto economico favorevole, mentre i tagli e i sacrifici non facevano altro che aggravare la situazione. La loro soddisfazione era dunque necessaria, per sostenere una razionale utilizzazione delle risorse esistenti e per mediare lo sviluppo. Vediamo di che cosa si tratta.
Capire il nesso tra spesa e creazione di lavoro.
Secondo Keynes la soddisfazione dei diritti sociali è necessaria in quanto comporta una spesa. Infatti, a suo avviso, senza spesa il rapporto tra i bisogni e l’attività produttiva non potrebbe instaurarsi e il sistema precipiterebbe in un ristagno strutturale. Da questo punto di vista, il keynesismo è stato ampiamente frainteso lungo due direttrici. Con la prima si è vagamente convenuto che la disoccupazione costituisse un problema di domanda aggregata, ma si è pensato anche che, poiché i bisogni sono inevitabilmente destinati ad espandersi, l’inadeguatezza della domanda aggregata avrebbe costituito solo un problema transitorio. Quello che possiamo considerare come il senso comune prevalente in merito è stato ben espresso a suo tempo da Luciano Lama, quando assunse la responsabilità della redazione del Programma del PCI e, senza neppure saperlo, fece proprio la teoria dello spendi e risparmia (stop and go) di Harrod: “se la tecnologia moderna risparmia lavoro nella soddisfazione dei bisogni materiali di oggi,” sostenne, “non potrà farlo altrettanto celermente per quelli di domani. I bisogni corrono sempre davanti a noi, cambiano e si modificano man mano che quelli vecchi vengono soddisfatti, per soddisfare i nuovi bisogni materiali, sociali e culturali, occorrerà anche in futuro lavoro” (Luciano Lama, Sul programma del PCI).
Ora, che per soddisfare bisogni occorra sempre un’attività produttiva è cosa ovvia e indiscutibile. Ma il sostenere che l’unica attività produttiva immaginabile sia quella del lavoro salariato testimonia solo dell’incapacità di prendere atto del nuovo nel quale, nei paesi sviluppati, siamo immersi. Qui è dove ci vengono in aiuto le tesi critiche sia di Marx che di Keynes: il lavoro salariato è stato un rapporto produttivo, cioè favorevole allo sviluppo delle capacità umane solo fintanto che ha dominato la penuria. Non appena la società ha cominciato a godere di una condizione materiale di relativa abbondanza, quel rapporto è diventato contraddittorio e non può più espandersi senza determinare effetti distruttivi. Quando Marx nei Grundrisse sostiene che, al sopravvenire dell’abbondanza, “la produzione basata sul valore di scambio crolla” si riferisce proprio ad una situazione nella quale lo sviluppo delle capacità umane ha raggiunto un livello talmente elevato, da sfociare nella “scomparsa delle differenze di classe” (Il manifesto). Ma la scomparsa delle differenze di classe non comporta anche un automatico superamento delle relazioni di classe. Queste relazioni possono infatti continuare a trascinarsi inerzialmente ed anacronisticamente nel nuovo contesto, determinando un impoverimento non necessario e impedendo uno sviluppo alternativo.
Quando i rapporti di classe rendono ciechi
Non entrerò in questa sede nel merito del perché ciò accada. Mi limiterò solo a sottolineare che si tratta di un fenomeno ampiamente comprovato, visto che la disoccupazione media nei paesi dell’Unione Europea negli ultimi trent’anni si è attestata strutturalmente attorno al 10/15%. Mi soffermerò invece brevemente sulle ragioni che spiegano perché le forze critiche dei rapporti dominanti sembrano incapaci di accettare il sopravvenire di questo fenomeno.
Come dicevo all’inizio, una tendenza prevalente nell’evoluzione sociale è quella di naturalizzare i rapporti nei quali gli individui si trovano di volta in volta immersi. Keynes descrive in maniera colorita la difficoltà che noi, suoi nipoti, preda del “vecchio Adamo”, avremmo avuto nel prendere atto che l’innovazione tecnologica avrebbe ben presto attuato un continuo risparmio di lavoro tale da sopravanzare la capacità di creare lavoro salariato sostitutivo in misura adeguata (John M. Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti). Facendoci precipitare in una situazione con la quale non avremmo saputo far subito i conti. A suo avviso né la persona ordinaria né i leader politica sarebbero stati, infatti, in grado di concepire una situazione nella quale la riproduzione del rapporto di lavoro salariato si sarebbe scontrata con difficoltà strutturali a causa dell’abbondanza. Questo anche se la disoccupazione e la precarietà dilaganti avrebbero dimostrato il contrario. Ciò ci porta alla seconda direttrice di fraintendimento delle conquiste keynesiane. Se si crede, come molti fanno a sinistra, che la disoccupazione sia spiegabile con “un dato strutturale abbastanza chiaro, e cioè che siamo davanti ad uno scenario futuro dominato dalla scarsità delle risorse”, una scarsità che vincolerebbe le nostre possibilità di scelta, si finisce col praticare il conflitto di classe nelle forme proprie dell’Ottocento, quando esso investiva la spartizione del necessario, che era insufficiente per soddisfare i bisogni.
Con questo errore si resta enormemente indietro rispetto alle conquiste rese possibili dal keynesismo, che sono molto più rivoluzionarie delle idee di molti politici radicali di oggi. La tesi di Keynes è infatti molto chiara: i bisogni ci sono, così come le risorse per soddisfarli, ma la forma capitalistica dell’organizzazione sociale impedisce di dare ai primi una veste sociale efficace e di percepire l’esistenza delle seconde. Lo stato può favorire l’uso di quelle risorse attraverso la spesa pubblica, ma solo fintanto che si tratta di provvedere al soddisfacimento dei grandi bisogni sociali. Nel giro di due o tre generazioni, però, anche questa soluzione mostrerà i suoi limiti, perché l’espansione della ricchezza disponibile avrà nel frattempo rivoluzionato il mondo.
Se questa previsione ha trovato conferma, come io credo, è sbagliato puntare a “rovesciare il rapporto di forza tra le classi sociali”. Bisogna piuttosto agire in maniera tale da “preparare la situazione, le condizioni e i rapporti” corrispondenti al superamento della divisione della società in classi. Sfrondato del misticismo politico nel quale è stato sin qui avvolto, questo obiettivo può essere l’unico che permette di sperare e di operare per un futuro migliore.