(Pre)cari compagni,… Elementi per una teoria del lumpen-ricercatore
Nella puntata del 10 settembre 2013 di Ballarò, Maurizio Landini ha espresso un commento assai lucido a margine di un’intervista fatta a una famiglia, gravata da problemi economici sempre più grandi, che confessava di sperare che la figlia non passasse il test d’ingresso all’università. La lucidità del ragionamento ha permesso a Landini, tra l’altro, di far emergere le contraddizioni del rapporto tra formazione universitaria e precarietà, ma un piccolo neo del suo discorso appare importante, al punto da dare inizio a questo contributo. Nella sua argomentazione, che aveva l’obiettivo di mostrare quanto il dibattito politico nazionale, centrato sulla decadenza di Berlusconi dal ruolo di senatore a fronte della sua condanna penale definitiva, fosse scollato dalla realtà sociale, Landini ha menzionato anche il famoso esempio di un ministro del governo Merkel, Karl-Theodor zu Guttenberg, dimessosi per aver copiato gran parte della sua tesi di dottorato; il problema è che il sindacalista italiano ha parlato semplicemente di tesi, dimenticando che si trattasse di una tesi, appunto, di dottorato. Questa dimenticanza può essere letta come un sintomo di rimozione di una figura socio-culturale per così dire statutariamente in ombra, ossia il dottore di ricerca: spesso troppo titolato per i lavori cognitivi sul mercato, altrettanto spesso ignorato e vilipeso dall’accademia, dall’editoria e dai dispositivi di divulgazione del sapere – il dottore di ricerca, infatti, interessa a questi ambiti prevalentemente nella misura in cui può far confluire gratuitamente o addirittura pagando di tasca propria i prodotti delle proprie ricerche o la sua forza-lavoro nella compilazione di bandi e documenti.
Se si vuole un altro esempio televisivo, o comunque popolare, è facile riportare all’attenzione “l’affaire Giannino”, il quale aveva millantato lauree e master, non curandosi di usufruire dell’opportunità di appropriarsi indebitamente anche di un titolo di dottorato – evidentemente da lui ritenuto inutile per fare colpo sull’italiano medio. Gli esempi potrebbero proseguire, fino a sbiadirsi nel tic accademico dei professori che continuano a chiamare dottorandi i ricercatori precari che da anni sorreggono o comunque implementano una parte sempre più cospicua del carico didattico, scientifico e burocratico dei dipartimenti universitari. Ciò che è importante riguarda il fatto che, a partire da tale sintomo, l’intento di questo contributo è mettere in evidenza la condizione sociale e materiale della cosiddetta intelligenza collettiva, e in particolare del pensiero filosofico e critico attuale, legata all’aspetto soggettivo del pensare – o, per dirla con Husserl, all’attività noetica. Tale condizione verrà analizzata innanzitutto attraverso la costruzione di una figura specifica che si trova ad esercitare la filosofia e la critica sociale, quella del precariato legato alle discipline umanistiche, con particolare riferimento alla ricerca filosofica, sociologica e storico-politica. Tuttavia, i fuochi d’interesse che coinvolgono questa figura illuminano terre limitrofe e facilmente amalgamabili con il precariato universitario quanto alla mancanza di voce, se non di riconoscimento, di credito e di reddito. In tal senso, il testo adotterà diverse sfumature nello schizzare l’immagine del precario della ricerca, al punto da giungere a confonderlo con una figura indistinta e diveniente, vestita coi panni di insegnanti delle scuole, giornalisti precari, lavoratori del sociale, artisti dello spettacolo e, quindi, lavoratori cognitivi in generale, arrivando a comprendere, come vedremo, pressoché la totalità degli utenti del web. In altre parole, l’obliterazione o la repressione della parola dottorato o dottore di ricerca è solo il sintomo di una rimozione ben più grande, poiché riguarda la produzione di valore a mezzo di conoscenza, e la riguarda in senso generale.
Poveri precari
Punto di partenza diagnostico relativo al disagio del capitalismo cognitivo1è quello messo bene in evidenza da Francesco Raparelli, nel suo recente Rivolta o barbarie, a proposito del «povero» come soggetto antagonista (pressoché) universale del capitalismo finanziario e del neoliberismo. A tale considerazione, che riprende, oltre alla figura marxiana del pauper, le analisi di Negri e Hardt sul lavoro biopolitico, e che individua nelle condizioni di povertà materiale il trait d’union della galassia di soggetti precari, tanto dal punto di vista lavorativo che esistenziale, Raparelli affianca il sentimento generalizzato di umiliazione sistematica del lavoratore, specie se cognitivo. L’umiliazione è infatti l’esperienza che più di qualunque altra connota la generalità del lavoro cognitivo oggi, dato che l’accesso a un “mestiere” intellettuale è tempestato di umiliazioni, angherie e soprusi di ogni genere – di cui i ricercatori precari (dai dottorandi agli assegnisti, ricordando anche chi non ha rapporti strettamente lavorativi con l’accademia) sono i testimoni principali.
Riprendendo le considerazioni di Marx presenti nei Grundrisse sul tema del lavoro vivo, il pauper, il povero, è il «lavoratore libero» che, a causa della deprivazione dei mezzi del lavoro, prodotta dall’accumulazione originaria tramite le enclosures, vive nell’assoluta povertà in quanto «totale esclusione della ricchezza materiale»2. Marx mostra però una grande contraddizione interna a questo regime di povertà, poiché per quanto dal punto di vista oggettivo, vale a dire rispetto ai parametri della società capitalista, il lavoratore è assolutamente povero nella misura in cui non possiede i mezzi di produzione – e dunque «capitale fisso» –, dal punto di vista soggettivo, concernente il suo lavoro e la sua capacità produttiva, egli è «fonte viva del valore» nonché «possibilità generale della ricchezza»3. La povertà del lavoratore all’epoca di Marx è quindi una forma di esteriorità rispetto al capitale fisso che fa dello stesso lavoratore un soggetto altro, rispetto al capitalista, il suo avversario per eccellenza. È del resto su questa conflittualità che si fonda il rapporto di capitale come rapporto sociale, incarnandone tutte le contraddizioni.
Ora, a differenza di quella descritta da Marx, la povertà lavorativa odierna, seguendo Raparelli, non riguarda più la separazione del lavoratore dai mezzi di produzione, dato che nel lavoro cognitivo e biopolitico risulta impossibile alienare i circuiti neuronali, i saperi o gli affetti ai lavoratori, ma è dettata «dalla violenta umiliazione salariale e, nello stesso tempo, morale delle giovani generazioni, dalla disoccupazione di massa, dalla vera e propria messa al bando dal mercato del lavoro che investe quei giovani cresciuti lungo l’agonia del modello sociale fordista-keynesiano e largamente più formati delle generazioni precedenti»4.Sulla scorta delle analisi di Jill Andresky Fraser, inerenti al fenomeno da lui definito di mental recession5che ha caratterizzato il collasso della New Economy americana di inizio millennio, Raparelli descrive allora una sintetica quanto efficace sintomatologia della nuova povertà, che diviene «povertà di secondo grado»:
A essere massimamente poveri sono i giovani che più hanno studiato e che, per la maggior parte, sono destinati a occupazioni precarie che nulla hanno a che fare con le competenze acquisite durante i faticosi anni di studio. Un vero e proprio «declassamento della forza-lavoro cognitiva» che passa per le sottoretribuzioni, anni di forzata disoccupazione, espulsione di massa dalla ricerca accademica o dall’insegnamento scolastico. […] Il pauper dell’Europa contemporanea dunque è lo studente, la giovane insegnante precaria, il professionista atipico (sia esso un archeologo o una traduttrice, una grafica o un architetto), il lavoratore dello spettacolo, l’operatore sociale, la lavoratrice del call center. Un caleidoscopio di figure produttive che, nella crisi, si muovono lungo la soglia del rapporto di capitale e subiscono impotenti, privi di comuni forme di autorganizzazione, diritti o dispositivi di autotutela, un violento processo di spoliazione e, nello stesso tempo, di “inclusione differenziale” nel mercato del lavoro. Il mezzo di produzione rimane incorporato, è il cervello, il linguaggio, gli affetti, ma la capacità di riprodurre la propria vita – date le sottoretribuzioni e la privatizzazione del welfare – non è più a portata di mano6.
Oltre all’umiliazione, sono dunque anche le condizioni d’impossibilità materiale relative alla soggettivazione a determinare la nuova figura del pauper: per via del progressivo smantellamento del welfare, le condizioni materiali necessarie allariproduzione sociale7, ossia alla possibilità di ristoro e riproduzione della forza-lavoro, tendono a divenire sempre più incerte, aleatorie, in ogni caso insufficienti. Questo, a ben vedere, sembra essere lo statuto sociologico della precarietà: una «povertà di secondo grado» generalizzata e transgenerazionale, che ha tra le figure più eclatanti quella del lavoratore cognitivo, laureato e inserito in processi di formazione tanto inutili al raggiungimento di un posto di lavoro dignitoso quanto interminabili e, spesso, onerosi da tutti i punti di vista.
La sottoproletarizzazione del lavoratore cognitivo
Tesi di fondo del presente contributo è che la quotidiana messa a rischio della riproduzione sociale e la continua umiliazione dei processi di soggettivazione, negli ultimi due decenni, hanno contribuito all’emergere di una figura a suo modo anfibia, capace cioè di essere ignorata tanto dall’accademia quanto dall’intellighenzia militante – di cui a volte egli stesso fa parte! – e dai suoi apparati editoriali: lo si potrebbe definire illumpen-ricercatore, il paria del pensiero o il maggiordomo del capitalismo cognitivo in Italia8. E del resto, il ricercatore precario spesso serve a tavola o lava i piatti degli intellettuali e dei professori ordinari, persino di quelli che più segue, magari anche i più rivoluzionari o addirittura i più attenti – letteralmente sulla carta – alla sua condizione socialmente disagiata.
Come il povero di Marx, il lumpen-ricercatore è, dal punto di vista oggettivo, realmente povero, e lo è sia sul piano materiale che su quello del riconoscimento, ossia della possibilità di esprimere il senso di ciò che produce e veicola nella sua attività cognitiva; dal punto di vista soggettivo, ancora come il pauper marxiano, egli produce ricchezza, ma questa viene continuamente svalutata e ignorata, al punto che, in fin dei conti, quello che viene richiesto al lumpen-ricercatore da parte di chiunque – dai suoi superiori, dagli editori, dai giornalisti, dagli amici o dai suoi intellettuali di riferimento –, non è tanto produrre, quanto consumare.
Di primo acchito si potrebbe dire, infatti, che il lumpen-ricercatore prevalentementeconsumi cultura, e questo in un triplice senso. Innanzitutto, gli oggetti culturali, dai libri ai titoli accademici, dai materiali artistici alla formazione ormai permanente, hanno un costo che sempre più grava sul singolo il quale, non strutturato in accademia, non ha accesso a forme di finanziamento per le proprie ricerche. Secondariamente, se è evidente che esiste una logica di mercato sempre più a corto termine a comandare la dimensione culturale main stream, privilegiando anche in filosofia gli stessi nomi ormai da decenni, non deve invece gettar scandalo riconoscere dispositivi di censura e di privilegio dello stesso (stesso autore, stessa tematica, stesso orientamento, ecc.) in quelle case editrici nate per pubblicare la differenza; detto altrimenti, una condizione d’impossibilità del processo di soggettivazione del ricercatore precario è anche quella relativa alla mancanza di investimenti di senso nei confronti della sua figura che, proprio per tale motivo, stenta a superare le condizioni di visibilità-espressibilità minime per parlare di ricercatore, così come il lumpen-proletariato non raggiungeva le condizioni sociali e politiche per poter parlare di proletariato.
In terzo luogo, il lumpen-ricercatore si trova ad esser parzialmente proletarizzato sul piano della stessa ricerca, poiché, pur partecipando massicciamente alla produzione cognitiva messa a valore dall’economia della conoscenza, non riceve alcun ritorno o quasi. È vero che i frutti delgeneral intellect e più prosaicamente dell’intelligenza collettiva vanno a ristorare e a potenziare il sapere vivo delle soggettività che producono conoscenza, ma la sproporzione tra le ore quotidiane impiegate nella produzione di conoscenza, informazione e comunicazione, dunque invalore di rete, per dirla con Matteo Pasquinelli, e il loro ritorno al produttore, economico ma non solo, è sempre enorme – così grande che, appunto, il produttore appare come consumatore. Sembra in sostanza che il lumpen-ricercatore finisca per consumare – persino producendoli – i contenuti che vengono proposti dalle varie filiere dell’industria culturale, non potendo partecipare alla definizione delle forme che predispongono tali contenuti.
Ora, il lumpen-ricercatore rinvia alla figura più generale del lumpen-intellettuale, che è un autentico ossimoro, un accostamento stridente e discordante, incompossibile, tra quella che nel Novecento era la trascendenza dell’intellettuale e l’onnipresente miseria immanente al sottoproletariato:lumpen-intellettuale è una contraddizione vivente, meglio una contraddizione biopolitica, sistematicamente rimossa: in modo consapevole e scaltro dall’Università, dal Miur nonché dal Ministero e dagli assessorati alla Cultura dell’intero Paese; in modo inconscio proprio dagli intellettuali trascendenti della sfera antagonista, nonché da molte delle persone che gli sono vicine o dai ricercatori strutturati che magari provano anche a studiarne il fenomeno come elemento sociologico, come uncase study da analizzare accademicamente, perdendo così di vista l’elemento politicamente cruciale. È infatti solo dallumpen-intellettuale che potrà emergere il nuovo nel pensiero antagonista al capitalismo cognitivo e ai dispositivi di potere biopolitici, poiché al presente egli è il maggior aggregatore di contraddizioni, ma anche di esperienze collettive, di pratiche e di saperi critici.
Cerchiamo comunque di comprendere meglio il senso di questo ossimoro vivente, poiché attraverso di esso ci è data la possibilità di registrare una tendenza in atto nella penisola fatta di poeti, di santi e di eroi precari. Se il Lumpenproletariat, ossia il sottoproletariato, rappresentava per Marx la classe sociale economicamente e culturalmente più disagiata delle moderne società industriali, dunque ancora più debole del proletariato, pressoché priva di coscienza politica e totalmente disorganizzata dal punto di vista sindacale, le analogie con il precariato cognitivo del XXI secolo, privato di welfare, diritti e, in sostanza, di lavoro degno di questo nome, nonché delle condizioni materiali di riproduzione sociale, sono evidenti9. Ancora più esplicita è l’analogia se si pensa che il sottoproletariato trae reddito da occupazioni simili o contigue a quelle del proletariato, ma prive di stabilità e garanzie, proprio come i ricercatori, giornalisti, operatori, editors precari rispetto ai loro “omonimi” strutturati o garantiti. A tali analogie nelle condizioni di partenza vanno poi affiancate alcune mancanze più specificamente “di classe”, riguardanti le lacune nella composizione politica del precariato cognitivo e dunque l’assenza di una tensione autenticamente emancipatrice, così come di prassi antagoniste o rivendicative condivise e generalizzabili.
Il senso critico dell’accostamento tra lumpen e intellettuale, così come tra lumpen e ricercatore, può essere colto in profondità attraverso la nozione di archi-scrittura elaborata da Jacques Derrida, che qui verrà descritta molto sinteticamente. Tale parola, archi-scrittura, è a tutti gli effetti un significante con funzione paleonimica, nel senso che è composto da due termini che, nella tradizione filosofica, hanno acquisito significati opposti ed esprime l’intenzione decostruttiva di minare alla base la metafisica dei principi primi e irriducibili. È infatti lo stesso significato di arché, ossia di principio, ad esser decostruito nel momento in cui viene affiancato dal significante “scrittura”, che la tradizione platonica e metafisica ha escluso categoricamente, “fin dal principio”, dal discorso sui principi. Se l’archi-scrittura fa segno verso una scrittura antecedente il linguaggio orale, condizione di possibilità della parola ma anche del pensiero, al tempo stesso essa indica l’assenza di principio, vale a dire la condizione di impossibilità dell’arché come significato trascendentale; nell’ottica derridiana non vi è nulla prima o dietro al segno, che è sempre arbitrario, se non altri segni10. Quel che qui conta è, come ha fatto Derrida, decomporre la contrapposizione concettuale per deflagrazione semantica e, perciò, nominare un sintomo della trasformazione problematica non solo della figura del ricercatore, bensì del soggetto produttore di conoscenza contemporaneo, ossiachiunque e, quindi, del soggetto o della soggettivazione in generale.
Lungi dall’essere un eroe – o un anti-eroe – il lumpen-ricercatore è allora una condizione altamente generalizzabile e diffusa, spalmata su tutte le reti della cooperazione cognitiva e attraverso qualsiasi relazione sociale. Ed è proprio leggendo il lumpen-ricercatore attraverso la nozione di archiscrittura che possiamo pensare l’utente di Internet e, in particolare, di Google come il lumpen-ricercatore diffuso, che, in tal senso, muove una parte ingente dell’economia del web. Questo avviene per via della struttura algoritmica per così dire double sided di Google, basata cioè su un canale di utenza totalmente gratuito, sul quale si innesta, proprio sfruttando la gratuità del primo algoritmo AdWord, l’algoritmo AdSense, che procura all’azienda di Mountain View miliardi di dollari di advertising.
È ormai assodato che la realtà odierna del Web sia composta da un’immensa rete di prosumers, ossia di consumatori-produttori, dunque di utenti, in tal senso consumatori, in grado di produrre valore economico, pubblicando e distribuendo autonomamente i propri contenuti, che questi siano immagini, informazione, cultura, linguaggi, eventi, occasioni, relazioni e affetti. L’aspetto economicamente rilevante risiede nel fatto che, a differenza dei produttori “classici”, i redattori di Wikipedia, i programmatori o sviluppatori di software libero, gran parte dei blogger e degli autori di articoli scientifici, così come numerosi grafici e molti altri utenti del web cooperano e producono valore senza ricevere compensi monetari. I prosumers e, in generale, gli utenti del web 2.0, con la loro produzione, accumulano capitale sociale, culturale e personale11, ma non più denaro, come invece ilavoratori creativi del secolo scorso. Eppure, le facoltà cognitive sono letteralmente “messe al lavoro”, nel senso che la creatività del cervello diviene la fonte primaria di creazione del valore, attraverso la partecipazione attiva degli utenti – che si trovano così «felici e sfruttati»12– ai grandi progetti collettivi, culturali, tecnologici e sociali, resi possibili dalle pratiche di peer production e cloud computing.
All’interno di questa tendenza ormai generalizzata, Google detiene un ruolo centrale e pressoché dominante, al punto da poter essere considerato, come ha fatto Matteo Pasquinelli, una sorta di rentier globale del XXI secolo. Infatti, in piena sintonia con il divenire rendita del profitto13, ossia con il paradigma della nuova accumulazione basata sull’articolazione di finanza ed economia del sapere, Googlevive di rendita nutrendosi dei metadati dell’informazione circolante in rete, dunque ricavando profitti stellari dalle ricerche effettuate attraverso il suo algoritmo PageRank, senza produrre contenuti specifici e, soprattutto, «senza alcun bisogno di introdurre ferreeenclosures»14. In altre parole, Google guadagna somme astronomiche facendo leva precisamente sulla gratuità del suo motore di ricerca e sulla libera fruizione, da parte di chiunque, dei commons digitali e informatici, che solo in apparenza, dunque, vengono sottratti al dominio del mercato15.
Detto ancora altrimenti, la creatività, la ricerca, l’attenzione e il desiderio, proprio mentre sviluppano le singolarità originali dei soggetti, come ha messo bene in evidenza Tapscott, finiscono per diventare armi di collaborazione di massa16, a beneficio dei colossi della New Economy come Google, Amazon, Facebook e Apple, che indirizzano gli utenti del web verso obiettivi funzionali ai loro profitti17. Pasquinelli ha perciò introdotto la nozione di “capitalismo macchinico”, mostrando come l’algoritmo Pagerank di Google sia «la prima formula matematica per calcolare ilvalore di attenzione di ogni nodo di un network complesso e in maniera semplificata il capitale cognitivo dell’intero network»18. Come è noto, a PageRank viene affiancato AdSense, ossia l’algoritmo degli advertisings, che permette così a Google di vivere letteralmente di rendita sui metadati dell’informazione circolante in rete, a partire da un’accumulazione originaria del sapere effettuata in rete: «PageRank sta all’Internet, come l’accumulazione originaria e la rendita fondiaria stanno agli albori del capitalismo»19.
Seguendo Stiegler, che negli ultimi anni ha affrontato di petto e filosoficamente la questione inerente a Google, l’algoritmo PageRank è un pharmakon, dunque al tempo stesso rimedio e veleno,il cui valore benefico risiede nell’essere uno strumento in grado di veicolare i saperi, i linguaggi e le lingue alla velocità della luce, mentre la sua tossicità consiste nell’essere «un dispositivo di canalizzazione e di captazione del valore, che si produce attraverso l’individuazione, e di deviazione di tale processo d’individuazione collettiva che, alla fine, conduce a nuovi processi di dis-individuazione» e nel rendere perciò l’azienda-dispositivo Google in grado non solo di guadagnare sui processi di transindividuazione generati dalla veicolazione ma anche di indirizzarli a proprio profitto, con tutti i rischi di istupidimento e di patologie che ne possono derivare.
Nell’ottica stiegleriana, la realizzazione del capitalismo cognitivo risiede in una proletarizzazione generalizzata attraverso il controllo dei saperi e la loro integrazione funzionale mediante le tecnologie della comunicazione, il design e il marketing, a loro volta sottomessi alle prescrizioni della finanziarizzazione. Stiegler concepisce la proletarizzazione come la perdita sistematica del proprio sapere, con la quale oggi fanno i conti tanto i produttori quanto i consumatori: così come «il produttore proletario perde il suo saper-fare, passato nella macchina, e diviene pura forza lavoro, il consumatore proletario perde il suo saper-vivere, divenuto modo di impiego, e non è più che un potere d’acquisto»20. La proletarizzazione è perciò una privazione del sapere, ossia un disapprendimento, che pone un problemanon da poco per la definizione della soggettività politica legata al lavoro cognitivo e per la salute di quello che è stato definito il «sapere vivo»21. Per i teorici del capitalismo cognitivo22, infatti, lo spostamento dell’asse produttivo sul versante intellettuale, cooperativo, simbolico, affettivo e relazionale, pur non significando affatto un venir meno dello sfruttamento o un attenuarsi delle divisioni sociali23, rappresenta l’occasione, per la soggettività lavorativa, di trovare nuove risorse di conflittualità attraverso una ricomposizione politica di classe che permetta la riappropriazione di quel “sapere vivo” messo al lavoro. Ora, le analisi di Stiegler mostrano in sostanza come il potenziale cognitivo, per via della proletarizzazione generalizzata dei saperi, rischi di non potersi tradurre né in conflittualità collettiva né in costruzione di soggettività, dal momento che il capitalismo cognitivo esprime un «potere cognitivo adattazionista» atto al controllo dei saperi e mirante a «proletarizzare i ricercatori»24, i quali vengono ridotti a nient’altro che “consumatori di sapere”, espropriati degli stessi saperi che producono e veicolano – ecco dunque che ci è dato un altro modo di generalizzare la figura del lumpen-ricercatore, giungendo questa volta persino ai ricercatori strutturati ma proletarizzati sul piano del sapere. Ciò avviene, ad esempio, tanto nel campo dell’editoria quanto in quello della brevettazione, o ancora in quello della licenza nell’utilizzo di software e strumentazioni tecno-scientifiche. È dunque lecito interrogarsi sulla potenza e persino sulla salute dei processi di soggettivazione – o, per dirla con Stiegler, di transindividuazione – se i lavoratori cognitivi vengono proletarizzati rispetto allo stesso sapere che producono e veicolano.
Comune umiliazione
In Comune, terzo volume della loro trilogia, Hardt e Negri sviluppano la teoria del lavoro biopolitico in quanto direttamente e integralmente processo di soggettivazione, se è vero che, oggi, “la vita stessa è stata messa al lavoro”, nel senso che nessun aspetto dell’esistenza sfugge alla dimensione produttiva, nemmeno tutte quelle attività da Marx ritenute “riproduttive” della forza lavoro25, né tanto meno gli utenti del web. Se questa è la condizione che i due autori descrivono, essi però non chiariscono quali effetti tossici o comunque nocivi il lavoro biopolitico produce sui processi di soggettivazione, e questa noncuranza rischia di produrre un netto scollamento tra la loro teoria e quel che accade nella vita di tutti i giorni.
A tal proposito e già alla fine del secolo scorso, inIl posto dei calzini, testo di indubbia profondità d’analisi e giustamente riconosciuto come punto di riferimento economico per gli sviluppi più recenti dell’Italian Theory, Cristian Marazzi affermava che se «si mettono al lavoro la comunicazione e le relazioni intersoggettive si mettono al lavoro i sentimenti, le emozioni, la vita intera delle persone. La sofferenza, il dolore, l’umiliazione sul posto di lavoro sono stati in questi anni gli obiettivi bellici del liberismo economico»26. Inoltre, in queste situazioni di dominio la soggettività non cresce, si arresta o regredisce e mette al servizio della produzione le sue forze migliori; il comune prodotto è dunque interamente sottratto alla soggettività. Questa dinamica è bene espressa ancora da Marazzi:
Da una parte ci si appella a ciò che è comune agli uomini, ossia lafacoltà di comunicare, mentre dall’altra questa condivisione di facoltà comuni e universali (pubbliche) porta a gerarchizzare i rapporti lavorativi in termini sempre più personali, sempre più privati e,in tal senso, servili. Da una parte si vuole con-dividere, e il lavoro comunicativo permette proprio questo, ma dall’altra si vuole ri-dividere, gerarchizzare, segmentare e privatizzare quella risorsa pubblica, perché a tutti comune, che è l’agire comunicativo27.
Praticamente sulla stessa lunghezza d’onda, Paolo Virno, nel descrivere il General Intellect a cui Marx ha fatto riferimento nei Grundrisse, e concentrandosi sulla messa a valore dei saperi mobilitati e incorporati nel lavoro vivo, diversi anni fa metteva in guardia sulla pericolosità delle relazioni lavorative che accompagnano tali dinamiche:
La messa al lavoro di ciò che è comune, vale a dire dell’intelletto e del linguaggio, se per un verso rende fittizia l’impersonale divisione tecnica delle mansioni, per l’altro induce una vischiosa personalizzazione dell’assoggettamento. L’ineludibile relazione con la presenza altrui, implicata dalla condivisione dell’intelletto, si dà a vedere come universale ripristino della dipendenza personale. Personale in un duplice senso: anzitutto, si dipende dalla persona di questo o quello, non da regole dotate di anonimo potere coercitivo; inoltre, a venire sottomessa è l’intera persona, la semplice attitudine al pensiero e all’azione, insomma l’ “esistenza generica” di ciascuno28.
Tanto nelle considerazioni di Marazzi, quanto in quelle di Virno, si presenta con ogni evidenza il problema delle relazioni di potere che attraversano qualsiasi forma di lavoro cognitivo e di cooperazione, per cui giova ricordare, seppur sinteticamente, i tratti caratteristici che fanno di questo concetto foucaultiano uno strumento imprescindibile per monitorare il rapporto tra lavoro cognitivo e produzione di soggettività.
Per Foucault i processi di soggettivazione si sviluppano sempre attraverso relazioni di potere, ossia mediante relazioni in cui è presente un ‘‘dislivellamento’’ di saperi e di poteri fra i soggetti29. Per tale ragione, il professore del Collège de France non ravvisa alcun “malessere” in questo dislivellamento fino a quando esso rimane funzionale a un passaggio di potenze, di saperi o capacità tra un soggetto e l’altro. Tale scarto differenziale non deve però tradursi in una forma di potestà totalizzante, che sottoponga l’intera esistenza dei soggetti in gioco a quella forma (io ti insegno – tu impari) di dipendenza reciproca: «Il problema è sapere come in queste pratiche – in cui il potere non può non esistere e in cui non è cattivo in sé – sia possibile evitare gli effetti di dominio che fanno sì che un bambino possa essere sottomesso all’autorità arbitraria e inutile di un maestro, uno studente possa essere lasciato alla mercé di un professore autoritario, ecc.»30. La presenza del differenziale è ciò che letteralmente fa divenire soggetto ogni singolo soggetto, modificandolo e potenziandolo: è proprio il dislivellamento tra i soggetti a rendere possibile la soggettivazione. Volendo allora intersecare la teoria delle relazioni di potere con quella della produzione e della fruizione del comune, la proprietà soggettivante di tali relazioni è ciò che permette, all’interno della cooperazione e della produzione biopolitica, lo sviluppo delle singolarità e non una loro omogeneizzazione.
Se però, come affermano Hardt e Negri, il «comune della cooperazione» rappresenta il perno della produzione economica attuale, nulla ci garantisce che le relazioni tra i lavoratori che cooperano siano relazioni di potere che permettono effettivamente il crescere delle soggettività e, dunque, la produzione nonché la fruizione del comune. La dimensione del lavoro cognitivo, infatti, per quanto rappresenti oggi il “luogo” biopolitico per eccellenza, è anche un terreno assai rischioso per queste stesse relazioni di potere, poiché possono facilmente trasformarsi in stati di dominio. In altre parole, la stessa cooperazione, che non solo rende possibile la produzione del comune, ma forgia e garantisce l’emergere delle «soggettività biopolitiche», al contempo, nella sua forma corrotta dai dispositivi di assoggettamento disseminati in ogni luogo e relazione lavorativi, può organizzare il dominio delle condizioni lavorative attuali.
Seguendo la prospettiva foucaultiana, l’aspetto plastico delle relazioni di potere risiede nella loro capacità di trasformarsi, di essere cioè reversibili, ma tale caratteristica indica anche ilrischio che si corre all’interno di ogni relazione, poiché essa può degenerare in dominio, in cui i rapporti tra i soggetti implicati si cristallizzano e non producono più soggettivazione:
Le relazioni di potere pervadono profondamente le relazioni umane. Questo non significa che il potere politico sia dappertutto, ma che, nelle relazioni umane, vi è tutto un fascio di relazioni di potere, che possono esercitarsi tra gli individui, in seno a una famiglia, in una relazione pedagogica, nel corpo politico. L’analisi delle relazioni di potere costituisce un campo estremamente complesso; essa si imbatte talvolta in quelli che possono essere definiti i fatti o gli stati di dominio, in cui le relazioni di potere, invece di essere mobili e di permettere ai diversi partner una strategia che li modifica, sono bloccate e fisse. Quando un individuo o un gruppo sociale giungono a bloccare un campo di relazioni di potere, a renderle immobili e fisse e a impedire ogni reversibilità del movimento […] ci si trova di fronte a quello che può essere definito uno stato di dominio31.
Se, dunque, le relazioni di potere permettono e favoriscono la soggettivazione, in una situazione di dominio viene meno la stessa relazione soggettivante e si registra solo assoggettamento. Trasferendo questa considerazione sul piano della teoria politica delineata da Hardt e Negri, nel passaggio dalle relazioni di potere agli stati di dominio, ciò che è in gioco è la salute del comune della cooperazione. In tal senso, se la teoria del comune elaborata dai due autori, tra le prospettive politiche contemporanee, pare essere quella più adeguata a descrivere le potenzialità politiche della soggettivazione all’interno del (bio)capitalismo cognitivo, essa necessita di una costante manutenzione sintomatologica, mirante a monitorare le situazioni, i dispositivi e i rapporti che rischiano di tramutare le relazioni intrinseche alla cooperazione – sia essa produttiva, sociale, politica o comunicazionale – in stati di dominio dove il comune si corrompe e, invece di favorire la crescita dei soggetti, ne determina l’indebolimento e l’asservimento.
Chi è lumpen?
Come in qualche modo è già stato anticipato, non solo non è necessario, bensì stupido, tentare di innalzare un ennesimo eroe, vale a dire un nuovo soggetto sedicente rivoluzionario, oppure critico, pragmatico o rappresentativo, specie a partire da queste premesse che rischierebbero di suonare micro-corporativiste, ma l’unica cosa che si può fare è generalizzare e letteralmente squalificare la figura del lumpen-ricercatore, fino a farne un sintomo dell’economia della conoscenza dominata dal capitalismo cognitivo. Un sintomo dunque facilmente avvertibile, almeno per la generazione italiana nata a partire dagli anni Settanta, ossia i soggetti cresciuti durante la maturazione della bioeconomia e il sorgere della società digitale nell’eterno crepuscolo del capitalismo finanziario. Ma tale sintomo può essere ulteriormente spersonalizzato, fino ad assumere le pure forme del valore biopolitico e inserirsi perciò in ogni piega della vita – per cui qualsiasi precario o disoccupato può percepirsi lumpen-ricercatore nel corso della giornata. È un valore generato dalla cooperazione dei cervelli, per usare un’espressione di Gabriel Tarde che pare calzare a pennello nel definire filosoficamente la posta in gioco della partita tra il capitalismo cognitivo e le prospettive ad esso alternative, centrate in particolare sulla proposta teorico-politica del Comune. In tal senso, le condizioni sociali del lumpen-ricercatore devono essere messe in rapporto con la dimensione produttiva di quest’ultimo, che cade sotto il segno della cooperazione. Ora, Hardt e Negri spiegano molto chiaramente che la cooperazione, al tempo stesso, fonda il comune della produzione e si fonda sul comune delle risorse biopolitiche; inoltre, all’interno del milieu digitale e dei suoi commons, la cooperazione genera quello che Pasquinelli definisce valore di rete, ossia la ricchezza collettiva che il capitale estrae da ogni attività cognitiva prodotta dalla cooperazione dei cervelli in rete. In tal senso il lumpen-ricercatore, piuttosto che essere una figura sociale dotata di una propria esistenza, è una condizione generalizzata nella quale tutti possono ritrovarsi ogniqualvolta producono conoscenza il cui valore viene loro sottratto; dal ricercatore precario, quindi, si giunge al tessuto socioculturale preso nel suo complesso, attraverso quello che Deleuze avrebbe definito il processo minoritario del “divenire tutti”, fino a ritornare, trasfigurato, al pauper marxiano, dove la ricchezza che quest’ultimo produce gli viene immediatamente sottratta. Tale sottrazione, però, se vogliamo condurre le parole di Raparelli alla radicalità che meriterebbero, è giunta al punto di privare il povero delle stesse condizioni di possibilità della riproduzione sociale e, parimenti, del senso – politico, culturale, esistenziale o biopolitico – dei suoi gesti e dei suoi sforzi cognitivi.
È necessario chiarire ulteriormente questo punto, perché ne va del credito che una teoria politica antagonista alle schiavitù materiali e psichiche del neoliberismo può maturare o perdere nei confronti dei soggetti che quotidianamente rischiano questi gioghi. Il valore rete è veicolato massicciamente nei circuiti antagonisti e, se il suo lato economico e finanziario ingrassa i corpi già obesi delle grandi aziende del web e più in generale delle corporation, il lato politico, “di senso”, non fa che rimpinguare la notorietà e l’autoreferenzialità dei teorici rivoluzionari di professione e dei loro dispositivi di sapere-potere. Quest’ultima dinamica, con tutta probabilità, non è intenzionale, né per quanto riguarda i produttori del valore-rete, né per i beneficiari; entrambi si percepiscono come cooperatori animati dal fine comune del Comune. Tuttavia, per quanto inconsapevole, la rimozione in ambito politico e antagonista del valore epistemico, cognitivo ed esperienziale prodotto dal lumpen-ricercatore deve essere evidenziata e denunciata, proprio come le forme di lavoro gratuito o semi-gratuito (dai tutorati didattici alle commissioni d’esame, fino ai veri e propri corsi d’insegnamento) che l’università promuove e generalizza. Se, dunque, per quanto riguarda il lavoro effettuato in accademia o presso le fondazioni private la soggettività antagonista del ricercatore precario deve pretendere un reddito, e in particolare un reddito adeguato al valore prodotto, nel mondo dell’antagonismo politico e militante, è l’accesso all’espressione relazionale di senso, nonché alla sua pubblicazione e pubblicizzazione tra i soggetti, ciò che oggi pare negato o perlomeno rarefatto, mentre deve essere preteso per la salute della cooperazione e, perciò, dello stesso Comune. In tal senso, quel che non solo l’università, ma anche la sfera militante distratta nei confronti delle soggettività di ricerca possono distruggere sono essenzialmente le relazioni tra i soggetti, che nel primo caso rappresentano le uniche dinamiche in grado di creare dis-senso critico nei confronti dei dispositivi di potere accademici e nel secondo, invece, dovrebbero produrre senso e processi di soggettivazione. Quando nella militanza tutto si chiude all’interno dello stesso giro di parola, quando cioè la produzione di senso si riduce ai “soliti noti” e a chi ripete a memoria le loro argomentazioni, il comune della cooperazione e delle lotte si corrompe e, di conseguenza, le soggettività si atrofizzano – paradossalmente, è proprio ciò che gli autori (e buona parte dei lettori) dell’Italian Theory rimuovono costantemente.
Il lumpen-ricercatore rappresenta, dunque, non solo il sintomo della condizione d’impossibilità materiale e politica di un’economia della conoscenza all’interno del capitalismo cognitivo, bensì anche il segnale di immaturità o di ritardo della stessa teoria critica e antagonista nel percepire i disagi biopolitici; questi ultimi, proprio perché non percepiti dai teorici politici, vengono reiterati e acuiti dalle dinamiche e dai dispositivi di sapere-potere della stessa sfera antagonista e militante, irrigidita, sia dal punto di vista editoriale che da quello programmatico, sui frutti dell’immaginazione dei suoi maestri, frutti che, se un tempo potevano parere prelibati, oggi sembrano avvizzirsi proprio di fronte a quel che accade al precariato cognitivo, con il ritmo delle slow motion. Per chiarezza, questi frutti sono, solo per fare qualche esempio, la biopolitica, la moltitudine, il comune, l’esodo, ecc., dunque concetti affilati che però necessitano di una manutenzione costante se si vuole continuare a usarli come armi critiche e non semplicemente come soprammobili o tagliacarte.
Per concludere questo breve contributo, in quanto sintomo sociale, il lumpen-ricercatore necessita di una terapia che lo chiami in causa come soggetto disagiato; perciò il compito di una politica attenta a questa forma di disagio sarà creare le condizioni di possibilità, teoriche e materiali, affinché tale figura possa essere incarnata da soggetti concreti e sviluppare così relazioni trasversali, che sappiano connettere esperienze anche molto differenti senza la necessità di rigidi cappelli ideologici o comunque senza bisogno di radicare le alleanze all’interno di sentieri storico-politici sempre più minoritari e autoreferenziali.
In definitiva, il desiderio che anima il presente lavoro è quello di innescare un dibattito che focalizzi l’attenzione sui processi di soggettivazione propri a chi fa ricerca; si tratta di processi che devono assolutamente essere transgenerazionali, volti a ripensare il ruolo, le relazioni e l’esistenza stessa dei ricercatori precari, trasformando una lamentela pseudo-corporativa in un progetto politico degno dei concetti e delle teorie che la cultura e il pensiero militanti hanno saputo costruire in questi “anni d’inverno”, per usare l’espressione di Guattari. Da questo punto di vista, se illumpen-ricercatore è un concetto polemico che non fa sconti a nessuno, è anche la figura che esonda il recinto dei titoli accademici e delle pubblicazioni scientifiche, e arriva ad abbracciare chiunque, nel disagio del capitalismo cognitivo, prova ad analizzare il presente, per trasformarlo.