Province: la confusione del Governo
a cura del Dr. Giuseppe Pietro Mancarella – Dottore Commercialista e Revisore Contabile
Tre mesi dopo la manovra “salva-Italia” il Governo pare accorgersi che il livello di governo intermedio è necessario ed è comune alla maggior parte dei paesi europei.
L’intervista sul futuro delle province rilasciata a Il Messaggero lo scorso 5 marzo dal Ministro della Funzione Pubblica lascia, a dire poco, sconcertati.
Da una parte, le dichiarazioni di Patroni Griffi lasciano trasparire che il Governo si sia reso conto di aver sbagliato radicalmente le scelte compiute con l’articolo 23, commi 14-20, del d.l. 201/2011, convertito in legge 214/2011. Ciò traspare chiaramente dalle parole del Ministro: “…tra Comuni e Regioni è ragionevole un livello intermedio per funzioni di area vasta…” e “Asciughiamo i costi, snelliamo la classe politica locale e rivitalizziamo l’amministrazione italiana ridefinendola su tre livelli, Comuni-Province-Regioni com’è nella maggior parte dei paesi europei”.
Dopo aver letto queste affermazioni, viene spontaneo strizzare gli occhi e rileggerle. E non si può fare a meno di chiedersi, se esse, come si deve ritenere, risultino rispecchiare la volontà del Governo, per quale ragione sia stata prevista la sostanziale abolizione delle province, col citato articolo 23 della legge 214/2011.
Il Ministro, in sostanza, con la sua intervista smentisce radicalmente l’intera strategia mossa fin qui dal Governo sulle province, che si reggeva sull’asserzione dell’inutilità di un ente intermedio tra comuni e regioni.
Esattamente all’opposto, tre mesi dopo la manovra “salva-Italia” il Governo pare accorgersi che, invece, il livello di governo intermedio è necessario ed è comune alla maggior parte dei paesi europei. In effetti, in Europa, solo Cipro, Città del Vaticano, San Marino, Lussemburgo e Liechtenstein non hanno province; perfino a Malta questo livello di governo è presente.
Indirettamente, l’intervista del titolare del dicastero di Palazzo Vidoni conferma l’impressione che si è sempre avuta: la normativa riguardante le province riversata nella manovra “salva-Italia”è stata soltanto il frutto frettoloso e avventato della campagna mediatica che ha preso di mira questi enti, sulla base dell’idea, inesatta, che dalla loro eliminazione deriverebbero 12 miliardi di euro di risparmi l’anno. E’ opportuno ricordare che la relazione tecnica allegata al decreto ha stimato i risparmi in eventuali 65 milioni (lo 0,54% di quello che la propaganda fa credere si possa risparmiare), nemmeno computati nei saldi finanziari derivanti dalla manovra.
L’eliminazione delle province si rivela per quello che è: solo una mossa per ottenere un po’ di captatio benevolentiae dai cittadini, mentre contestualmente si aumentava la benzina, si reintroduceva l’Ici sotto forma di Imu, si allungava l’età lavorativa, si tagliavano le pensioni minime. Un contentino alla stampa e all’uomo della strada o avventore di osteria, messo nel decreto senza alcuna preventiva analisi sull’opportunità, sugli effetti concreti, sulle immense difficoltà operative derivanti (nessuno ha fin qui seriamente pensato alle necessarie modifiche all’ordinamento dei tributi e delle entrate locali e a chi si dovrebbe accollare i saldi del patto di stabilità a carico delle province). E’, francamente, paradossale che il Governo scopra solo ora che un livello di governo intermedio tra comuni e regioni sia necessario e che questa modalità organizzativa della pubblica amministrazione è ben presente in Europa e lo è, in particolare, nei Paesi competitor dell’Italia ai quali ci si vuole sempre paragonare ed ispirare: Germania su tutte, Francia, Gran Bretagna e Spagna comprese.
L’atto di indiretta resipiscenza del Governo, tuttavia, è solo parziale. E la confusione sul futuro delle province appare, a questo punto, totale e irrimediabile.
Una sola cosa appare chiara: il Governo-Monti si è esposto e quindi in ogni caso le province dovranno assolvere al ruolo di agnello sacrificale, si riveli concretamente utile o meno la norma che le intende riformare.
Sul “come” riformarle, il buio cala nerissimo, stando all’intervista di Patroni Griffi. Da essa si trae molto chiara l’impressione che delle statuizioni – tutte incostituzionali – dell’articolo 23 della legge 214/2011 resterà poco.
Leggiamo altre dichiarazioni del Ministro: “Parte delle funzioni delle Province saranno affidate ai Comuni. Le Regioni, invece, non avranno nulla. Ma tra Comuni e Regioni è ragionevole un livello intermedio per funzioni di area vasta: la manutenzione delle strade, la tutela ambientale, la pianificazione del territorio. Ora queste funzioni saranno affidate a Province più grandi governate da un presidente, eletto solo tra i consiglieri comunali, che avrà un profilo tutt’altro che anonimo”.
Quanto dichiarato non corrisponde per niente ai contenuti della legge. Il Ministro, sostanzialmente, afferma:
a) ai comuni andranno assegnate parte delle funzioni delle province, mentre alle regioni non spetterà nulla. Il comma 18 dell’articolo 23 della legge 214/2011 stabilisce tutta un’altra cosa: “lo Stato e le Regioni, con propria legge, secondo le rispettive competenze, provvedono a trasferire ai Comuni, entro il 31 dicembre 2012, le funzioni conferite dalla normativa vigente alle Province, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, le stesse siano acquisite dalle Regioni, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. Non è per nulla conforme a quanto prevede la legge affermare che alle regioni non andrà nulla, appare corretto ritenere esattamente l’opposto;
b) alle province resteranno funzioni proprie del livello intermedio tra comuni e regioni, esemplificativamente la manutenzione delle strade, la tutela ambientale, la pianificazione del territorio. Anche in questo caso, le affermazioni del Ministro sono in rotta di collisione con l’articolo 23. Infatti, il comma 14 dispone: “Spettano alla Provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei Comuni nelle materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. L’effetto dell’articolo 23 è privare le province di ogni funzione che non siano i fumosi indirizzo e coordinamento. Che le province possano svolgere funzioni “di area vasta” è effetto di un’elucubrazione o di un preannuncio di riforma delle norme vigenti del Ministro. Il quale sembra preannunciare ulteriori riforme quando dice che le funzioni “di area vasta” saranno assegnate alle province più grandi. Questo era il contenuto della manovra finanziaria estiva 2011, varata ancora dal Governo Berlusconi. Le affermazioni di Patroni Griffi o sono un’errata corrige, che dovrebbe essere corroborato da una legge, o sono un vaticinio, o sono un auspicio. Ma attualmente il testo della riforma che anch’egli ha votato dispone tutt’altro.
Riassumendo, il Ministro della Funzione Pubblica, nell’intervista commenta la riforma “varata” dal Governo, ma in realtà ne prefigura una nuova e diversa che preveda:
a) la conservazione delle province, come ente di area vasta, intermedio tra comuni e regioni;
b) il dimezzamento del numero delle province;
c) la conservazione in capo alle province delle funzioni tipiche del livello provinciale;
d) l’assegnazione ai comuni di tutte le altre funzioni;
e) l’assenza di trasferimenti di funzioni alle regioni.
Il sostanziale ripensamento delle disposizioni dell’articolo 23 della legge 214/2011 leggibile in filigrana dalle dichiarazioni di Patroni Griffi apre, adesso, altri scenari estremamente complessi.
Da un lato, il Ministro e, per esso probabilmente l’intera compagine governativa, insiste nell’errore di fondo di ritenere che le funzioni provinciali possano, per lo più, essere attribuite ai comuni. Quelle elencate dall’inquilino di Palazzo Vidono, tuttavia, non qualificano pienamente le funzioni tipicamente provinciali che, in quanto tali, mal si attagliano ad una gestione comunale. Basti pensare che nell’elenco manca l’edilizia scolastica. Immaginare che la costruzione di una nuova scuola o l’investimento su scuole già esistenti possa essere demandato a un sindaco solo è semplicemente impensabile. Le scuole superiori, delle quali si occupano le province, hanno come utenti non i residenti del comune presso il quale sorgono, ma tutti i cittadini della provincia (e, nelle scuole ai confini del territorio, anche fuori provincia). E’ impensabile che i sindaci possano ragionare in termini di servizi più vasti del territorio che li elegge. E’ assurdo immaginare che l’offerta formativa, il coordinamento dei trasporti a servizio delle scuole, gli investimenti sulle scuole possano essere governati in modo polverizzato dai singoli comuni.
Altrettanto vale per tutti i servizi che l’articolo 21, comma 4, della legge 42/2009 individua come “fondamentali” delle province:
a) funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo, nella misura complessiva del 70 per cento delle spese come certificate dall’ultimo conto del bilancio disponibile alla data di entrata in vigore della legge 42/2009;
b) funzioni di istruzione pubblica, ivi compresa l’edilizia scolastica;
c) funzioni nel campo dei trasporti;
d) funzioni riguardanti la gestione del territorio;
e) funzioni nel campo della tutela ambientale;
f) funzioni nel campo dello sviluppo economico relative ai servizi del mercato del lavoro.
Nessuno di questi servizi per sua natura pare attribuibile in modo efficiente dai comuni, proprio in applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza, richiamati abbastanza a sproposito dal Ministro.
Il quale, come del resto lo stesso articolo 23 della legge 214/2011, incorre in un errore piuttosto grave rispetto alle prerogative delle regioni. Infatti, tra i tanti vizi di costituzionalità che caratterizzano la vigente normativa in tema di riforma delle province uno è particolarmente grave, anche se poco evidenziato, sin qui, e cioè la violazione palese e fortissima alle previsioni dell’articolo 118, comma 2, della Costituzione: “I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”.
Finché le province non siano del tutto eliminate dalla Costituzione (ma, nell’intervista il Ministro Patroni Griffi lascia comprendere che la riforma costituzionale ne disporrà la diminuzione di numero, non la soppressione) le regioni potranno sempre eccome dire la propria in merito alle funzioni provinciali.
Non si deve dimenticare che a seguito del d.lgs 112/1998, moltissime funzioni sono state assegnate alle province dalle regioni e con leggi regionali: si pensi a funzioni in materia di commercio, agricoltura, formazione professionale, turismo. La legge statale, a meno di rivedere totalmente l’impianto delle riforme Bassanini, non può espropriare la potestà normativa delle regioni. Solo le regioni potranno stabilire come rivedere l’assegnazione delle funzioni attribuite a suo tempo alle province e scegliere se polverizzarle tra i comuni o riassorbirle anche per, magari, riassegnarle nuovamente alle province, proprio in attuazione dell’articolo 118, comma 2, della Costituzione. Vigente il quale, le regioni conservano sempre il potere di decidere a quale livello di governo assegnare l’esercizio di determinate funzioni amministrative, visto che le province comunque non saranno del tutto soppresse. Non è secondario sottolineare che proprio una delle funzioni più qualificanti delle province, quelle in tema di politiche attive del lavoro, sono state ad esse attribuite con leggi regionali.
Le dichiarazioni di Patroni Griffi, dunque, attestano che il Governo sta ripensando – opportunamente – le sue scelte iniziali, troppo precipitose e “populistiche”, ma che la confusione regna sovrana. Soprattutto, perché, lo si ribadisce, nessuno ha fin qui preso in mano l’unico ragionamento davvero necessario: il rapporto costi/benefici.
Sopprimere le province avrebbe un costo immenso: in termini della necessità, accennata sopra, di modificare radicalmente il sistema della finanza locale ed il patto di stabilità, nonché in termini di patrimonio. Occorrerebbero anni per reintestare l’immenso patrimonio edilizio delle province. Basti pensare che la parte più importante di esso sono le scuole, ma che non tutte quelle in carico alla gestione provinciale sono di loro proprietà. Per effetto di un’altra legge di “riforma a metà”, la 23/1996, infatti, alcune scuole sono rimaste di proprietà dei comuni e l’intreccio degli assetti proprietari risulterebbe inestricabile per un ente che dovesse subentrare.
Poi, vi sarebbe il problema della traslazione delle centinaia di migliaia di convenzioni, contratti, appalti, servizi, forniture e, naturalmente, dei dipendenti.
L’intervista di Patroni Griffi è la controprova che il Governo ha agito, fin qui, senza aver realmente chiaro cosa fare, come farlo e quando farlo. Per un verso, le dichiarazioni del Ministro della Funzione Pubblica rivelano che il Governo non è dell’idea di dare attuazione a prescindere da tutto alle disposizioni dell’articolo 23 della legge 214/2001 e che è disponibile a rivederne i contenuti. Questo è un bene. L’importante è che il ripensamento adesso permetta di affrontare il problema della riforma delle province in modo ponderato e senza preconcetti.
Niente impedisce al legislatore di provare il riordino dell’organizzazione delle istituzioni, in modo da razionalizzarne funzioni e costi, anzi questo è un bene. Non sono processi, tuttavia, che possono realizzarsi per decreto legge e prescindendo dalla Costituzione, come invece si è fatto con la manovra “salva Italia”.