Tra Schumpeter e Keynes: l’eterodossia di Paul Marlor Sweezy
[E' uscito in libreria, per le edizioni Jaca Book, il terzo volume di L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Il capitalismo americano e i suoi critici. Per gentile concessione dell’editore, pubblico su questa pagina il mio saggio su Paul Sweezy e Paul Mattick. A questa prima parte, dedicata a Sweezy, seguirà, nei prossimi giorni, la seconda parte, dedicata a Mattick. rb]
Il dibattito di Sweezy con Schumpeter
Paul Sweezy è stato assistente di Schumpeter. Il rapporto di amicizia e la distanza intellettuale sono tali per cui la parola discepolo suona stonata. Come scrisse al fratello Al, benché interessato dalle teorie dell’economista austriaco, non se ne sentì granché influenzato. La relazione personale fu però molto forte, quasi fosse il sostituto del figlio mai avuto. Tra i due si svolse un memorabile dibattito, di cui è rimasta memoria grazie al «ricordo» di Paul Samuelson su «Newsweek»il 13 aprile1970, e ai materiali resi disponibili da John Bellamy Foster sulla «Monthly Review»nel maggio 2011. Era l’inverno del 1946-47. IlSocialist Party di Boston aveva chiesto al dipartimento di economia di Harvard di ospitare un dibattito su capitalismo e socialismo. Schumpeter ritenne poco appropriato che la discussione si svolgesse all’interno delle lezioni, e suggerì senza successo che il Graduate Student Club se ne facesse promotore. Il dibattito ebbe luogo senza sponsor, protagonisti appunto Schumpeter e Sweezy. Dal racconto di Samuelson, più di vent’anni dopo, traspare ancora l’eccitazione per l’evento:
“Schumpeter era il rampollo dell’aristocrazia austriaca all’epoca di Francesco Giuseppe. Aveva confessato di avere tre desideri: di essere il più grande amatore a Vienna, il miglior cavallerizzo in Europa, il più grande economista del mondo. «Sfortunatamente», aggiungeva con modestia, «il posto che mi è stato dato [ad Harvard] non era di primo livello».…
A contendere con l’astuto Merlino stava il giovane Sir Galahad [figlio illegittimo di Lancillotto, uno dei tre cavalieri che nel ciclo arturiano ritrova il Sacro Graal]. Figlio di un alto dirigente della banca J.P. Morgan, Paul Sweezy era il meglio che Exeter e Harvard potessero produrre … e si era affermato come uno dei più promettenti economisti della sua generazione. Annoiato della «saggezza convenzionale» e stimolato dagli eventi della Grande Depressione [degli anni Trenta], era divenuto uno dei pochi marxisti americani … In modo ingiusto, gli dei avevano dotato Paul Sweezy non soltanto di un ingegno brillante, ma anche di arguzia e bellezza. Se un fulmine si fosse abbattuto su di lui quella notte, si sarebbe giustamente detto che lo aveva colpito l’invidia degli dei.”
Dopo la presentazione dei personaggi, Samuelson procede a sintetizzare lo «scontro» attraverso le parole che attribuisce al moderatore, Wassili Leontief. «Il paziente è il capitalismo. Entrambi gli oratori lo davano per morente, ma le diagnosi differivano. Sweezy riteneva si trattasse di un cancro incurabile. Schumpeter (il cui affetto andava al sistema defunto nel 1914) attribuiva il prossimo decesso a un conflitto nevrotico, ad un odio di sé che gli aveva fatto perdere la voglia di vivere. Sweezy stesso sarebbe stato talismano e segno profetico di ciò». Il giudizio unanime fu che l’economista austriaco avesse perso l’incontro. Restio, come sempre, a presentare la propria visione e la propria analisi, si era lanciato in una apologia degli Stati Uniti, probabilmente per il suo usuale gusto della provocazione.
Bellamy Foster ipotizza che Schumpeter si fosse basato sul capitolo 28 della non ancora pubblicata seconda edizione di Capitalismo, Socialismo, Democrazia, dove criticava le tesi «stagnazionistiche» che alcuni autori (il più noto è Alvin Hansen) avevano tratto da Keynes. Bellamy Foster ha anche pubblicato gli appunti di Sweezy. Non era l’innovazione il primum movens, ma l’accumulazione: un processo che non tende ad autoequilibrarsi. Lo squilibrio tra investimenti e risparmi si riproduce sistematicamente, perché non vi è modo di adattare l’investimento ai bisogni dell’accumulazione, o di far sì che, se gli investimenti fossero inadeguati, i capitalisti effettuino dei consumi compensativi. Non è dunque vero che il capitalismo «trustificato» sia in grado di generare più stabilità e di attenuare le crisi (come sostenuto da Hilferding per il «capitalismo organizzato»). Le ragioni della tendenza alla crisi del capitalismo non sono sociologiche o psicologiche: sono economiche, anche se non ha senso ricondurre il ciclo a una causa unica e uniforme.
D’altra parte, l’ombra di Schumpeter sembra distendersi su quel che dice Sweezy nel 1982, in Why Stagnation, dove pure sostiene la rinnovata importanza della tendenza alla stagnazione:
“Significa questo che sto sostenendo che la stagnazione è divenuta uno stato di cose permanente? Niente affatto. Alcuni – e tra questi credo sia legitttimo includere Hansen – pensavano che la stagnazione degli anni Trenta «fosse qui per rimanere», e che potesse essere superata soltanto attraverso mutamenti fondamentali nella struttura delle economie capitalistiche avanzate. L’esperienza ha dimostrato che avevano torto, e un argomento del genere potrebbe rivelarsi falso anche oggi.”
Nella stessa «disfida» con Schumpeter il marxista statunitense aveva iniziato dichiarando il proprio accordo con una frase dell’antagonista nella Teoria dello sviluppo economico: «Capitalism … is by nature a form or method of economic change and not only never is but never can be stationary».
La biografia
Sweezy è nato a New York, nel 1910, rampollo della alta borghesia degli Stati Uniti, figlio di un vicepresidente della First National Bank. I suoi primi scritti compaiono sull’«American Economic Review», la più prestigiosa rivista di economia, prima ancora di aver esaurito il primo ciclo degli studi universitari. Studia alla Philips Exeter Academy e alla Harvard University, dove si laurea nel 1931. Nel 1932-33 va alla London School of Economics, dove fu influenzato dal pensiero di Laski, e dove ebbe un primo contatto col marxismo. Tornato ad Harvard nel 1939 per il dottorato, divenne assistente di Schumpeter: per lui curò, oltre ai rapporti con gli studenti, una serie di seminari. Importante fu quello di un gruppo molto ristretto, cui partecipavano solo 4-5 persone: tra loro Elizabeth Boody, storica economica, futura moglie dell’economista austriaco; e Samuelson, futuro Premio Nobel per l’economia. Allievo di Sweezy fu pure un altro premio Nobel, Robert Solow, che partecipò al corso sull’economia del socialismo. In una bella intervista a Savran e Tonak, tradotta da L’ospite ingrato, Sweezy ricorda come Solow fosse al tempo uno dei giovani economisti più radicalmente orientati a sinistra (non si poteva dire lo stesso, osserva, di Samuelson). Ottenuta una posizione di ruolo, continua Sweezy, il radicalismo di Solow impallidì alquanto. Sweezy non inclina ad alcun giudizio «moralistico». Riferendosi a Solow, ma anche a Eric Roll, dirà:
“È, in certo modo, una sorta di opportunismo, ma non volgare o immorale in casi come questi. Tali sono le pressioni della società americana che, per una persona, è estremamente difficile resistere, soprattutto se non ha un’indipendenza economica. Dovete capire che probabilmente anch’io mi sarei comportato nello stesso modo. Fortunatamente, non dovevo dipendere da uno stipendio universitario.”
L’interpretazione del titolo The Economics of Socialism era alquanto «larga», visto che Sweezy sondava il terreno della ricostruzione delle varie tradizioni teoriche del socialismo, andando ben oltre il marxismo in senso stretto. In quel corso, peraltro, Sweezy si provò anche a sviluppare una trattazione accademica e rigorosa del marxismo; a questo scopo si basò molto sulla letteratura europea, anche di lingua tedesca, che conosceva nell’originale. Fu così che, nel tempo, Sweezy costruì una delle sue opere più famose, quell’autentico classico che è ancor oggi La teoria dellosviluppo capitalistico, pubblicato nella sua prima edizione nello stesso anno, il 1942, in cui Schumpeter (la cui prima opera fu La teoria dellosviluppo economico del 1911) pubblicava Capitalismo, Socialismo, Democrazia.
È in questo arco di anni che Sweezy diviene marxista, da autodidatta. Non si può dire sia stata una scelta saggia dal punto di vista accademico. I suoi scritti di teoria economica standard erano accettati nelle migliori riviste. Dopo l’articolo sull’«American Economic Review» del dicembre del 1930 (The Thinness of the Stock Market) aveva pubblicato sul «Quarterly Journal of Economics» nel 1937 (On the definition of Monopoly), e sul «Journal of Political Economy» (Demand Under Conditions of Oligopoly) nel 1939. Quest’ultimo articolo finì rapidamente sui libri di testo, e capita di vederlo citato anche ai nostri giorni – senza che gli studenti che sanno qualcosa di marxismo (una rarità) sospettino che si tratta della stessa persona. L’interesse al tema della concorrenza imperfetta è testimoniato anche dal suo primo libro del 1938, la sua dissertazione di dottorato, dedicata al commercio del carbone in Inghilterra (Monopoly and Competition in the English Coal Trade), edito dalla Harvard University Press.
Sono anni in cui Sweezy è influenzato dal keynesismo, e dal dibattito sulla presenza o meno di una tendenza alla «stagnazione». Nel 1936 era uscita la General Theory, gli Usa erano ormai dal 1929 in quello che John Kenneth Galbraith appropriatamente definì comeThe Great Crash. Nel 1932 un quarto della popolazione era disoccupata. La ripresa a metà degli anni Trenta stimolata dal New Deal si accompagnava a una vivace stagione di lotte «dal basso». Vi fu però una grave ricaduta nella crisi nel 1937-38 quando Roosevelt, spaventato dai disavanzi nel bilancio pubblico, tirò il freno. Dalla crisi si uscì davvero con la Seconda guerra mondiale. Sweezy fece in quegli anni parte di alcune agenzie del New Deal, e partecipò alla stesura di un importante rapporto del 1938, The Structure of the American Economy, che sostenne l’opportunità di una via d’uscita «keynesiana» dalla crisi. Intanto lavorava alla divisione analisi e ricerca dell’Office of Strategic Services, la futura Central Intelligence Agency, curando l’European Political Report.
Per le sue pubblicazioni, e non solo per lo stretto rapporto di confronto intellettuale e di amicizia con Schumpeter, Sweezy era lanciato sulla via di una carriera accademica di successo. Nel 1942 lascia Harvard per un paio di anni, per un viaggio di ricerca: all’epoca è titolare di un contratto temporaneo della durata di 5 anni. Mentre è via, si apre la prospettiva per un posto di ruolo permanente in quella università. Schumpeter appoggia Sweezy con determinazione. Ciò non di meno il Dipartimento di Harvard non lo vuole. Sweezy ricorderà la diffusa leggenda di un suo «licenziamento» da Harvard, ma la smentirà. Tornato dal suo viaggio, avrebbe avuto in teoria la possibilità di rimanere ancora due anni. Gli venne però chiaramente fatto capire che nessuno voleva un marxista come docente di ruolo, e perciò dopo quei due anni se ne sarebbe dovuto andare. Decise di «non restare in mezzo al guado».
Nel 1953, nel pieno della caccia alle streghe comuniste di McCarthy, Sweezy viene convocato e interrogato in un processo intentato dallo stato del New Hampshire. Si rifiutò di rispondere alle domande. Viene condannato, e si appella alla Corte Suprema, che nel 1957, gli darà ragione. La sentenza segna una svolta, e prelude all’esaurirsi della caccia alle streghe. All’inizio degli anni Sessanta Sweezy, insieme a Paul Baran, scrive Monopoly Capital, pubblicato in originale nel 1966, tradotto da Einaudi. Mentre la Teoriadello sviluppo capitalistico era una introduzione al marxismo in tutti i suoi vari aspetti – dalla teoria del valore, alla teoria della crisi, fino all’ultima parte dedicata alla teoria dell’imperialismo – Il capitale monopolistico affronta il passaggio dalla fase concorrenziale del capitalismo dell’epoca di Marx alla fase della contemporanea concorrenza fra oligopoli. Èun saggio redatto volutamente nel linguaggio dell’economia tradizionale, di tipo keynesiano-istituzionalista, talora addirittura con accenti neoclassici.
Nel 1949 Sweezy aveva fondato, con Leo Huberman, la «Monthly Review». La rivista ebbe una edizione italiana tra il 1968-1987 grazie all’iniziativa di Enzo Modugno, che spesso ne stilava l’editoriale per la copertina (furono in seguito coinvolti Lisa Foa e Luciano Canfora); e fu agli inizi distribuita nelle edicole, vendendo sino a 20.000 copie. Il primo numero si apriva con un articolo famoso: Perché il Socialismo di Albert Einstein. Sweezy e i collaboratori della «Monthly Review» entreranno in relazione con molte esperienze rivoluzionarie: da Mao a Cuba (su cui pubblicò due libri con Leo Huberman: nel 1960, Cuba: anatomia di una rivoluzione, e nel 1969 Socialismo a Cuba). Gli anni Settanta e Ottanta sono punteggiati dai numerosi articoli in cui Sweezy, da solo o con altri (in primis, Harry Magdoff), propone una interpretazione della crisi capitalistica, riconducendola alla crisi da realizzazione. Ma Sweezy va oltre e, già negli anni Settanta, formula un’analisi della sempre maggiore finanziarizzazione del capitalismo. La finanza «conta», sia nel suo aspetto contraddittorio sia nel suo aspetto funzionale all’accumulazione del capitale. Su tutto questo sono importanti le raccolte di articoli della rivista, alcune tradotte in italiano da Editori Riuniti, come Dinamica del capitalismo americano (1970)e La fine della prosperità (1977), altre no, come Stagnation and Financial Explosion (1987) eThe Irreversible Crisis (1988).
Sono anni in cui Sweezy interviene in molti altri dibattiti. Sulle economie e le società post-rivoluzionarie ha una polemica con Charles Bettelheim (Il socialismo irrealizzato). Sweezy è sempre stato critico rispetto all’idea del socialismo sovietico come incarnazione del socialismo. Non ha però aderito alla tesi di ispirazione trockijsta secondo cui l’Unione Sovietica sarebbe stata uno «stato operaio degenerato»; e neppure all’interpretazione di ascendenza maoista secondo cui l’Unione Sovietica sarebbe rimasta un’economia capitalistica. Se è vero che permangono elementi capitalistici, si ha comunque a che fare con economie e società non più capitalistiche, ma post-rivoluzionarie e post-capitaliste.
Il contributo di Sweezy è stato significativo anche in altre due discussioni. La prima si svolse negli anni Cinquanta e fu originata dalla pubblicazione dei Problemi di storia del capitalismo di Maurice Dobb. La posizione di Sweezy sottolineava fortemente il ruolo del commercio nella transizione dal feudalesimo al capitalismo, smarcandosi rispetto ad una lettura più chiusa nel mondo della produzione. La seconda, sulla individuazione dei possibili soggetti di un cambiamento rivoluzionario, si svolse negli anni Sessanta e Settanta. Sweezy rimarcava la tendenziale integrazione della classe operaia dei paesi avanzati, e riponeva le proprie speranze di un cambiamento rivoluzionario nella «periferia» e nelle lotte di liberazione nazionale.
In quel che segue, anche per le ricadute sulla lettura del capitalismo contemporaneo e la sua crisi, mi concentrerò essenzialmente sulla interpretazione che dà Sweezy della teoria marxiana del valore e della crisi, su alcuni aspetti della sua teoria del capitalismo monopolistico, e sulla sua lettura della finanziarizzazione. In conclusione, tratterò della riflessione di un autore molto lontano dalle tesi della «Monthly Review», eppure significativo per intendere bene i limiti dell’economia keynesiana e la tendenza del capitalismo alla crisi: Paul Mattick.
La teoria del valore
Nel suo libro del 1942 Sweezy riprende la distinzione di Franz Petry tra l’aspetto qualitativo e l’aspetto quantitativo nella teoria del valore-lavoro. L’aspetto qualitativo rimanda alla tesi che i valori sarebbero cristallizzazioni di lavoro, quali che siano i «valori di scambio» (ovvero i rapporti di scambio proporzionali alle quantità di lavoro direttamente e indirettamente contenute nelle merci). L’aspetto quantitativo ha a che vedere con la «trasformazione» dei valori di scambio in un secondo, ulteriore sistema di rapporti di scambio, i «prezzi di produzione». Il dibattito successivo ha chiarito che Sweezy (come Dobb e Meek) patisce una definizione di astrazione del lavoro ridotto a generalizzazione mentale. Il discorso marxiano sui rapporti di scambio viene riletto riconducendolo al solo momento dell’equilibrio. Il ragionamento si articola in due approssimazioni successive, di cui i valori di scambio costituirebbero la prima, i prezzi di produzione la seconda.
Sweezy ha messo in circolo per primo nella discussione accademica (e non solo) i percorso che, da Bortkiewicz a Seton, si è impegnato in una «correzione» della trasformazione di Marx, nel solco del simultaneismo. Il punto è che al capolinea di quella tradizione pare proprio esservi l’inessenzialità dei valori di scambio come punto di partenza della fissazione dei prezzi di produzione. Sraffa può essere inteso come una implicita, ma decisa, critica di questa impostazione. In Produzione di merci a mezzo di merci salta infatti la determinazione dualistica dei rapporti di scambio di equilibrio. In un primo modello, i prezzi capitalistici vengono immediatamente fissati una volta dati la «configurazione produttiva» e il salario reale di «sussistenza». In un secondo modello si ammette un grado di libertà nella distribuzione, e i prezzi sono determinati una volta definita la spartizione conflittuale del prodotto netto tra profitti e salari. La caduta dell’aspetto quantitativo della teoria del valore-lavoro trascinerebbe con sé l’aspetto qualitativo. Il problema è che così salta pure la tesi che la genesi del plusvalore sia da ricondurre al pluslavoro: una conclusione che può essere giustificata soltanto sulla base della possibilità di istituire un confronto tra la quantità di lavoro oggettivata dai lavoratori nelle merci prodotte e la quantità di lavoro che torna loro in quanto contenuta nei beni salario.
Va però detto che Sweezy, alla fine degli anni Settanta, si è smarcato con molta forza dal marxismo «tradizionale» con cui era stato (non a torto) identificato. La sua strada – sostiene – deve intendersi come alternativa sia alla visione di Dobb (l’autore che aveva meglio definito una lettura di Marx in termini di due livelli di approssimazione nella determinazione dei prezzi di equilibrio, e che su quel fondamento aveva suggerito una continuità non problematica tra Sraffa e l’autore del Capitale) sia a quella di Steedman, che nel suo Marx dopo Sraffa aveva suonato la campana a morto per la teoria del valore-lavoro sottolineando una profonda frattura tra i due autori sul terreno della teoria dei prezzi). In una lettera a Michael Lebowitz del 30 dicembre 1973, Sweezy così giudica la posizione di Dobb:
“Il problema con loro, e il punto di vista da cui vanno (simpateticamente) criticati, sta nel fatto che in questa era, e oggi, non è possibile una critica efficace del capitalismo che non sia marxista. Coloro che come Dobb immaginano che lo sraffismo sia una specie di variante del marxismo sono sulla strada sbagliata. Il nostro compito è (1) cercare di riportarli sulla strada giusta, e (2) evitare che i giovani li seguano su quella sbagliata. Insomma, stabilire il marxismo per quello che è, la critica definitiva (il che non significa che non sia suscettibile di ulteriori sviluppi), con il suo legame intrinseco a una posizione politica rivoluzionaria.”
Nell’intervista già citata così si esprime Sweezy:
“Sraffa non riteneva che ciò che stava facendo fosse qualcosa di alternativo al marxismo, o comunque una negazione del marxismo. Dal suo punto di vista, la sua era una critica dell’ortodossia neoclassica. Joan Robinson ha detto in modo molto esplicito che Sraffa non abbandonò mai il marxismo. Egli fu sempre fedele al marxismo, nel senso che aderì alla teoria del valore-lavoro. Ma non ne scrisse mai. Fu questa una peculiarità di Sraffa. Egli cominciò nelle vesti di critico dell’economia marshalliana. Ricordate il suo famoso articolo degli anni Venti. Sraffa appartenne al gruppo di Cambridge. Combatté le battaglie ideologiche che avevano il loro centro a Cambridge. Ebbe in esse una certa parte, ma non come marxista. La sua fu una posizione del tutto peculiare, che tuttavia non autorizza nessuno a contrapporre Sraffa al marxismo (come invece fa Ian Steedman). Considerare la teoria di Sraffa una teoria completamente alternativa è, a mio giudizio, del tutto sbagliato, e non ha nulla a che vedere con le reali intenzioni di Sraffa né con i veri scopi dell’analisi marxista. Non riesco a vedere in Steedman nessuna dinamica, nessuno sviluppo. Pensare che sia possibile procedere senza una teoria del valore (inteso il termine nel suo senso più ampio, comprensivo anche della teoria dell’accumulazione ecc.) a me sembra totalmente fallimentare. Non va bene per nulla. E non mi sembra che ne sia venuto fuori qualcosa. Giusto era mostrare i limiti, gli errori, l’intima incoerenza della teoria neoclassica: questa era una buona cosa, questo era importante. Ma pensare che su questa base sia possibile sviluppare qualcosa che abbia attinenza con l’ambito e con le finalità del marxismo è del tutto sbagliato.”
Una visione «larga»cdella teoria del valore –– che includa al suo interno non solo la teoria dell’accumulazione,ma anche la teoria della crisi – è cruciale per comprendere l’itinerario e larilevanza di Sweezy, ancor oggi. Va pure detto che la sua lettura delle intenzioni di Sraffa è oggi confermata, ben al là di quanto potesse intuire lo stesso Sweezy, dalle carte dell’economista italiano conservate alla Wren Library di Cambridge. Quello che è certo è che lo stesso giudizio pubblico di Sweezy sul neoricardismo fu di dura critica e opposizione, quando questa corrente attaccava la teoria del valore-lavoro.
Ne testimonia l’intervento che Sweezy pronunciò a Londra, nel novembre 1978, ad una tavola rotonda (a cui chi scrive assistette) proprio sul libro di Steedman: il testo venne poi pubblicato nel volume collettaneo The Value Controversy. Il punto cruciale non sta tanto nel fatto che Sweezy contestasse alla radice l’idea che non esisterebbe un «ponte» tra la dimensione (essenziale) del valore e la dimensione (fenomenica) del prezzo. Non sta neppure nell’argomento, da lui stesso avanzato, che l’analisi in termini di valore non viene smentita da quella in termini di prezzo. La novità sta nell’autocritica di Sweezy. Se è possibile analizzare la realtà fenomenica esclusivamente in termini di prezzo, si chiede, che senso ha preoccuparsi dei valori come «essenze»? Non è in realtà affatto vero, sostiene, che sia possibile analizzare la realtà capitalistica in termini esclusivamente di prezzo: è vero piuttosto che, una volta sviluppata l’analisi in termini di valore, è possibile raggiungere i medesimi risultati con l’analisi in termini di prezzo. La ragione sta in ciò: che il centro di gravità dell’analisi marxiana è il saggio di plusvalore. È un punto che non aveva compreso scrivendo la Teoriadello sviluppo capitalistico: per questo le sezioni quinta e sesta del capitolo sul problema della trasformazione, benché non sbagliate in sé, non toccano il cuore della questione, cioè il ruolo chiave del saggio del plusvalore della teoria marxiana del capitalismo.
La teoria della crisi
Vale a questo punto la pena di procedere ad analizzare la lettura che Sweezy dà nel 1942 della teoria della crisi. Si trovano ne La teoria dello sviluppo capitalistico alcune utili distinzioni che hanno orientato non poco i dibattiti successivi, tra la crisi dovuta alla caduta tendenziale del saggio di profitto, la crisi indotta dalle sproporzioni intersettoriali, e la crisi dovuta al sottoconsumo. Per quel che riguarda la caduta tendenziale del saggio del profitto, l’argomento di Marx è che il mutamento dei metodi di produzione darebbe luogo ad un aumento della composizione organica del capitale che eccede percentualmente l’incremento del saggio di plusvalore. L’aumento del rapporto tra capitale costante e capitale variabile ha un’influenza negativa sul saggio del profitto, mentre l’aumento del rapporto tra plusvalore e capitale variabile, che anch’esso consegue al progresso tecnico, produce all’opposto un effetto positivo sul saggio del profitto. Secondo Marx il primo effetto è più forte del secondo, e dunque il saggio del profitto non può che flettere lungo il tempo. Sweezy, come Joan Robinson, è scettico, in quanto ritiene che le controtendenze, e in particolare l’aumento del saggio di plusvalore, più che compensano l’aumento della composizione del capitale.
Per quel che riguarda la crisi da realizzazione, Sweezy la legge sulla scorta del Kautsky del 1905. Il profitto è prevalentemente investito, il salario integralmente consumato. La natura sempre più diseguale della distribuzione fa sì che la quota del consumo divenga relativamente sempre più bassa in rapporto al valore prodotto. La «realizzazione» del plusvalore richiede progressivamente quote crescenti di domanda di investimenti. Per quel che riguarda la crisi da sproporzioni, essa è facilmente deducibile dagli «schemi di riproduzione» del secondo libro del Capitale. Tanto la composizione dell’offerta quanto la composizione della domanda sono legate ai rapporti quantitativi che si stabiliscono nei vari rami di produzione. La struttura dell’offerta delle diverse industrie dipende dal livello raggiunto dalle branche produttive nel capitale totale; mentre quella della domanda dipende dalla ripartizione del capitale costante e del capitale variabile all’interno delle industrie. Gli schemi consentono di derivare le condizioni diequilibrio, ovvero i rapporti che garantiscono la compatibilità tra composizione dell’offerta e composizione della domanda a livello di sistema. Il verificarsi effettuale di tali condizioni dipende dall’operare del meccanismo dei prezzi in concorrenza,cioè dal coordinamento ex post tramite il mercato.
Si può, come ha fatto Claudio Napoleoni nella sua importante Introduzione alla riedizionei taliana (parziale) del 1970, contestare a Sweezy una troppo rigida separazione della crisi da sproporzioni dal «sottoconsumo», sino a farne due cause distinte di crisi. Nell’un caso, la crisi da realizzo deriverebbe dal generalizzarsi degli squilibri settoriali a causa dell’instaurarsi di una reazione a catena di tipo demoltiplicativo. Nell’altro caso, avremmo immediatamente una classica crisi da insufficienza di domanda effettiva. Secondo Napoleoni, al contrario, abbiamo a che fare con due «concause» della crisi. L’elemento di fondo sta nella incapacità del sistema dei prezzi di rendere compatibili le scelte delle imprese individuali in condizioni di mercato «anarchico». Quando, come è prima o poi inevitabile, il «caso» fortunato in cui le condizioni di equilibrio dettate dagli schemi non si realizzasse, i movimenti dei prezzi sul mercato dovrebbero correre in soccorso, orientando gli investimenti delle imprese. D’altronde, vista l’insufficienza radicale e costitutiva del coordinamento ex post tramite i prezzi, quell’orientamento può essere efficace soltanto se la quota dei consumi non scende troppo. Inquesto senso, allora, sottoconsumo e sproporzioni sarebbero come le due lame di un’unica forbice. Il sottoconsumo può determinare la crisi per i limiti del coordinamento ex post del mercato tramite i prezzi, mentre l’anarchia della concorrenza è fattore di crisi se il consumo non orienta da presso l’investimento. Un aspetto rimanda all’altro, e i due si completano a vicenda.
La lettura della crisi capitalistica come indotta da una insufficienza di domanda effettiva, per un eccessivo incremento del saggio di plusvalore – eccessivo in quanto determina una tendenza alla stagnazione per carenza di sbocchi – è una delle componenti essenziali che regge la lettura di Sweezy del Grande Crollo, della crisi degli anni Settanta, degli sviluppi successivi. Qui siamo anche evidentemente vicini ai temi che Baran e Sweezy affrontano, con altro linguaggio e categorie, nel Capitale monopolistico.
Un limite del libro del 1942, visto retrospettivamente, è che viene trascurata l’analisi delle trasformazioni e dei conflitti nei processi capitalistici di lavoro. È però nel gruppo della «Monthly Review» che Harry Braverman prepara (e pubblica nel 1974) il volume sulla «degradazione del lavoro» nel taylorismo e fordismo, proprio quando Sweezy e Baran stanno pubblicando gli studi sul capitale monopolistico. Lavoro e capitale monopolistico, tradotto in Italia da Einaudi, è, dopo più di un secolo, il primo libro che torna ai temi che percorrono gran parte del primo libro del Capitale. Una qualità di Sweezy, del tutto evidente, è quella di non lavorare mai da solo, di avvalersi sempre di «alleati»che completino il proprio lavoro di ricerca. Braverman significò anche il rapporto con gli operai, con il mondo del lavoro – nella intervista che ho richiamato Sweezy afferma che è un peccato che Braverman sia morto così presto, in quanto rappresentava il contatto stabile e il dialogo con esperienze di lavoro e sindacali.
Il capitale monopolistico
Secondo Baran e Sweezy, il capitale monopolistico accentua le difficoltà che il capitale incontra sul terreno della realizzazione del plusvalore. Si badi, ciò non ha affatto a che vedere con una presunta superiorità del capitalismo di libera concorrenza sul capitalismo monopolistico quale «macchina» per la crescita. Sweezy è troppo buon conoscitore, oltre che amico, di Schumpeter per cadere in una visione del ristagno ingenua come questa. Il suo obiettivo, con Baran, è semmai l’opposto. Primo, mostrare come le potenzialità di crescita vengano incredibilmente sviluppate dalla mutazione monopolistica del capitalismo. Secondo, far vedere come ciò dia luogo ad un aggravamento dei problemi che il capitale incontra sul terreno della domanda effettiva, ovvero la difficoltà di trovare sbocchi adeguati a consentire lo smercio dei prodotti a prezzi tali da coprire i costi e il profitto: far vedere, dunque, come si instauri e aggravi una tendenza alla stagnazione. Terzo, chiarire come tale tendenza, invece di inverarsi immediatamente, sia stata efficacemente ma perversamente controbattuta dall’evoluzione concreta del capitalismo stesso, senza rimuovere la deriva verso una crisi immanente che rivelerebbe l’irrazionalità e lo spreco tipici del capitalismo monopolistico, ma per il momento solo spostandola in avanti. Il perno di questa costruzione teorica e interpretativa è la sostituzione alla caduta tendenziale del saggio di profitto marxiana di una tendenza all’aumento del surplus, o «sovrappiù».
Cosa sia il «capitale monopolistico» è presto detto: è quella fase dello sviluppo capitalistico in cui dominano quelle imprese che, viste le loro dimensioni, possono determinare i prezzi di ciò che vendono e di ciò che acquistano. Si tratta di una fase che ha inizio a fine Ottocento per i fenomeni di concentrazione, fusione e assorbimento determinati dalla dinamica stessa della «libera» concorrenza (una concorrenza che passa in modo essenziale per la via della riduzione dei prezzi), e che finiscono con il rendere centrale il grado di monopolio e la battaglia per la ‘qualità’ nell’analisi del meccanismo dello sviluppo. Senza che ciò significhi – si badi – la scomparsa della concorrenza in quanto tale, visto che la concorrenza è implicita nella natura privatistica del capitale. Siamo piuttosto in presenza di un mutamento della forma della concorrenza, non di una tendenza all’autopianificazione del capitale. È una competizione che si esplica con l’abbassamento dei costi unitari per il tramite del progresso tecnico e organizzativo, la pubblicità, etutti quegli strumenti che possono contrastare una entrata nel mercato di altre imprese o che riescono a indurre il consumo verso certe direzioni e non altre.
È una posizione che si distacca dalle analisi del «capitalismo manageriale» alla Berle e Means fondate su una scissione tra proprietà e gestione economica delle imprese. Secondo Berle e Means l’impresa monopolistica sarebbe ormai diretta da manager indipendenti dai proprietari (tanto i grandi quanto piccoli azionisti), e non sarebbe più orientata alla massimizzazione del profitto ma semmai alla riduzione dei costi, all’allargamento delle vendite, al miglioramento della qualità, allo sviluppo dell’impresa. Baran e Sweezy obiettano che i manager appartengono allo strato superiore dei proprietari, per questo il divorzio tra gestione e proprietà non si dà. Si è prodotta, piuttosto, una differenziazione all’interno della proprietà. La pura proprietà delle imprese da parte degli azionisti, in quanto tale, benché quantitativamente estesa, conta qualitativamente poco. Dentro la, e non fuori dalla, proprietà vi sono dei capitalisti «attivi» alla Marx, che svolgono una funzione di controllo. Stabilito questo punto, gli autori ne deducono che, quali che siano gli scopi particolari che i manager si propongono di ottenere nel dirigere i capitali che hanno sotto controllo, questi scopi particolari si trovano tutti all’interno di quello scopo fondamentale che resta la massimizzazione del saggio del profitto. La massimizzazione del profitto può però essere condotta in un periodo più disteso di tempo di quanto non fosse nel capitalismo di libera concorrenza. Può anche verificarsi un conflitto sulla politica dei dividendi, ma sempre all’interno di quel fine unico e dominante.
Una rilettura del libro del 1966 dovrebbe integrarne le tesi con le elaborazioni di Sylos Labini e di Kalecki – è un punto su cui insiste, e a ragione, Joseph Halevi in un dibattito su Sweezy pubblicato da L’ospite ingrato. In Oligopolio e progresso tecnico Sylos Labini esce da quella visione statica dell’oligopolio di cui è ancora in qualche misura prigioniero il libro di Baran e Sweezy, e propone una visione dinamica che può essere posta in relazione con il problema della realizzazione in Marx e il principio della domanda effettiva in Keynes. Di ciò gli autori delCapitale monopolistico divennero coscienti, e infatti molto apprezzarono il contributo dell’economista italiano quando ne vennero a conoscenza. Per quel che riguarda Kalecki, è cruciale la tesi che i profitti sono determinati dalla spesa.
Non estenderei però questo argomento, come fanno i kaleckiani, sino a costruire il mito che sia possibile un capitalismo «trainato dai salari». La spesa che conta, la domanda che traina, nel capitalismo è quella autonoma: dei capitalisti stessi (per investimento o consumo), o le esportazioni nette, o le «esportazioni interne» (così Kalecki denominò la spesa pubblica in disavanzo finanziata monetariamente). Senz’altro, una migliore distribuzione del reddito, aumentando il monte salari, marxianamente aumenta le vendite del settore che produce beni di consumo, e keynesianamente aumenta il «moltiplicatore» della domanda autonoma. Il reddito cresce, e così la domanda, e gli stessi investimenti (vista la elevata utilizzazione della capacità produttiva) vengono spinti verso l’alto, una sorta di «acceleratore», in un circolo «virtuoso». Non è però possibile rinvenire qui una locomotiva dello sviluppo, la spinta decisiva per una lunga fase dello sviluppo capitalistico, ma solo la spiegazione di particolari momenti del ciclo capitalistico, per di più spesso su base puramente «locale», una esperienza nazionale. Quella di una wage-led accumulation è una illusione in cui Baran e Sweezy non mi pare siano mai caduti. Non si tratta semplicemente di un ostacolo «politico»: ha a che vedere con la «relazione di capitale», con il rapporto sociale di produzione.
Dobbiamo aggiungere una cautela, che segnala un problema aperto. Abbiamo detto che la strategia di investimento delle imprese dipende dalla capacità produttiva inutilizzata, la quale a sua volta dipende dalla domanda effettiva. È però sempre più vero nel capitalismo contemporaneo che lo stesso investimento dei global player tende coscientemente a creare capacità produttiva inutilizzata, come forma di concorrenza «aggressiva» nei confronti dei concorrenti. Vale anche la pena di fare un rapido cenno ad un aspetto significativo dell’analisi di Baran e Sweezy, la loro visione dell’imperialismo (poi sviluppata da Harry Magdoff). Per la Monthly Reviewl’imperialismo non ha tanto a che vedere, come per la Luxemburg, con la caccia ai nuovi mercati (che il capitalismo del centro nel Novecento ha peraltro saputo procurarsi da sé); e neppure, come in Lenin, con capitali in eccesso che vengono esportati e creano poi, come conseguenza, sbocchi per le esportazioni di merci (anche qui, va detto, il capitalismo del centro nel Novecento ha assorbito capitali più di quanti ne siano defluiti all’esterno). L’imperialismo per i nostri autori ha semmai a che fare con la difesa della propria quota di mercato da parte delle multinazionali, e con gli interessi del blocco militare-industriale.
“Il capitale monopolistico” e la teoria del valore-lavoro
Il capitale monopolisticofu molto contestato dai marxisti ortodossi. Al cuore di queste critiche era la tesi che, visto che nel capitalismo della concorrenza tra oligopoli questi ultimi hanno un potere di mercato sui prezzi, ciò determinerebbe una tendenza del surplus ad aumentare. Il punto fu letto un po’da tutti come un rigetto della teoria marxiana del valore e della crisi. Vi erano, per così dire, delle prove indiziarie a conferma. Innanzi tutto, lo stile del libro, che volutamente si teneva distante da un apparato categoriale troppo esplicitamente legato al marxismo, e che per essere letto dalle nuove generazioni era anzi declinato su un linguaggio keynesiano o persino neoclassico. Era poi detto a chiare lettere che gli autori preferivano il concetto di ‘sovrappiù’ comecaratterizzato da Baran nel suo Il «surplus» economico – e cioè come la differenza tra la produzione sociale totale e i costi sociali necessari ad ottenerlo: questi ultimi essendo definiti in modo da escludere il lavoro che non avrebbe avuto luogo in un ordine sociale razionale non capitalistico – alla categoria marxiana di plusvalore:
“È vero che Marx dimostra – in alcuni passi del Capitale e delle Teorie del plusvalore – che il plusvalore comprende [oltre a profitti, interessi e rendita] anche altri elementi come le entrate dello stato e della chiesa, le spese per trasformare le merci in moneta, e i salari dei lavoratori improduttivi. In generale, tuttavia, Marx considerava questi elementi come fattori secondari e li escludeva dal suo schema teorico fondamentale. Noi sosteniamo che nel capitalismo monopolistico questa impostazione non è più giustificata e speriamo che un cambiamento nella terminologia contribuirà al necessario mutamento nella posizione teorica”(p. 10-11).
Sicuramente giocava anche la volontà di distaccarsi nella maniera più nitida possibile dalla caduta tendenziale del saggio di profitto da aumento della composizione di capitale, a favore di una determinazione del plusvalore dal lato della domanda nelle nuove condizioni di un capitalismo non più di libera concorrenza: senza però che questo capitalismo sempre più «organizzato» fosse in grado di emanciparsi dalla tendenza alla crisi, che veniva semmai accentuata, andando così contro le tesi di Hilferding.
Anche in questa circostanza, a distanza di vent’anni, nella intervista che abbiamo citato Sweezy torna con note autocritiche sulla questione, e osserva: «Forse è stato un errore». Con Baran avevano progettato un paio di altri capitoli per spiegare i rapporti tra illoro impianto concettuale e la teoria marxiana del valore: capitoli rimasti allo stadio di manoscritto alla morte di Baran. E nell’introduzione alla ristampa dell’edizione greca lamenta le incomprensioni rispetto alle loro intenzioni, e chiarisce che quella che era stata presa come una constatazione ovvia, cioè il loro abbandono della teoria del valore e del plusvalore di Marx, era del tutto falso. Con Baran avevano inteso partire da quella teoria per procedere oltre: anche qui scrive, «vedo ora che fu un errore» non averlo chiarito. Avrebbero dovuto cominciare da una esposizione della teoria del valore come si dà nel primo libro del Capitale, facendo seguire in prima battuta la trasformazione dei valori in prezzi di produzione come svolta da Marx nel libro terzo, e poi in seconda battuta il tema solo accennato (per ovvie ragioni storiche) da Marx della trasformazione dei valori, o dei prezzi di produzione, in prezzi di monopolio nello stadio monopolistico del capitalismo: «in nessun momento Baran o io abbiamo rigettato,esplicitamente o implicitamente, le teorie del valore e plusvalore, ma abbiamo tentato soltanto di analizzare le modifiche che si devono tenere in conto come conseguenza della concencentrazione e centralizzazione del capitale».
Il punto è che, come osserva Sweezy altrove, questa seconda trasformazione ha conseguenze più significative della prima – una osservazione che mi pare alluda proprio alla legge dell’aumento tendenziale del surplus. Queste considerazioni di Sweezy hanno il limite di risultare in larga misura implicite. A volte i due sembrano ragionare su un semplice paragone tra il capitalismo degli oligopoli e il capitalismo della libera concorrenza, sostenendo che il surplus nel primo sarebbe superiore. In altri casi, in modo più significativo,affermano che la determinazione non concorrenziale dei prezzi consente di far emergere un sovrappiù più elevato di quel che deriva dalla mera dinamica del processo immediato di valorizzazione. È possibile oggi seguire meglio il discorso dei due autori perché nel numero di luglio-agosto 2012 della «Monthly Review» è stato pubblicato un testo che Baran (soprattutto) e Sweezy avevano redatto sulle «implicazioni teoriche» del Capitale monopolistico, con un prezioso commento di John Bellamy Foster. Un punto importante è la teorizzazione del salario: non più vincolato alla sussistenza, esso è (come in Sraffa) variabile e in esso si nasconde parte del surplus. Il capitale monopolistico può incrementare il sovrappiù non soltanto a spese del capitale competitivo ma anche a spese dello stesso salario. La quota del salario che include il sovrappiù non è tanto dovuta al conflitto sociale, ma al fatto che tramite il salario trova sbocco e assorbimento la stessa spesa «improduttiva»: si ha qui una acquisizione di valori d’uso a cui non corrisponde un miglioramento qualitativo della condizione dei lavoratori. Ciò apre in ogni caso la strada ad ottenere profitto per «deduzione» dal salario, rallentando la crescita del valore della forza-lavoro rispetto a quella che si sarebbe altrimenti avuta.
Sono a questo proposito di grande interesse, ancora una volta, le considerazioni avanzate da Claudio Napoleoni. In questo caso il riferimento è ad alcune lezioni inedite dei primissimi anni Settanta. La difficoltà di leggere il Capitale monopolistico come coerente con la marxiana teoria del valore/plusvalore può essere esposta nei termini seguenti. Nel libro terzo del Capitale Marx sostiene che monopoli naturali o artificiali rendono possibile un prezzo di monopolio superiore al prezzo di produzione e al valore delle merci. Marx ritiene però che il modo di determinazione dei prezzi non possa influire sulla formazione del valore e del plusvalore: incide soltanto sulla distribuzione del plusvalore tra i vari capitali. Il prezzo di monopolio consente semplicemente di appropriarsi di una parte del profitto delle altre imprese, invece di spalmarlo uniformemente tra tutte. L’unica altra possibilità è che l’extra plusvalore sia l’esito di una redistribuzione dal salario al profitto. La forma di mercato interviene quando si deve stabilire come il plusvalore si divide tra i molti capitali o tra le classi.
Non è difficile, sostiene Napoleoni, riformulare la tesi di Baran e Sweezy di una crescita tendenziale del sovrappiù in modo da renderla compatibile con la teoria marxiana del (plus)valore-lavoro. È vero che il capitale monopolistico non può produrre plusvalore in eccesso alla situazione di libera concorrenza, se gli altri fattori rimangono invariati. Vi sono però due processi a cui accennano i due marxisti americani che possono essere chiamati in soccorso. Il primo processo ha a che vedere con l’andamento nel tempodella forza produttiva del lavoro all’interno del capitalismo monopolistico. Qualora si potesse sostenere che la forza produttiva tende a crescere nel mondo del capitale monopolistico più di quanto non avverrebbe in libera concorrenza, per esempio attraverso l’adozione di una tecnologia migliore, la supposta contraddizione con la teoria marxiana del (plus)valore svanirebbe. E ciò non soltanto è congruente con il rigetto da parte dei due autori di ogni critica «romantica» alle forme imperfette della concorrenza, secondo cui il monopolio comporterebbe l’arretratezza, ma è coerente con il rapporto intellettuale di Sweezy con Schumpeter, pur nella reciproca distanza.
Il secondo processo ha a che vedere con il salario. Il caso di Marx è quello in cui il capitalista che gode di una posizione oligopolistica è in grado di aumentare i propri salari trasferendo il maggiore costo del lavoro sui propri prezzi. L’aumento del salario delle imprese oligopolistiche spinge ad un aumento del salario delle altre imprese, che vedono così una diminuzione del proprio profitto. Può però considerarsi anche un altro meccanismo. L’aumento delle dimensioni di impresa dà luogo ad un abbattimento dei costi unitari, e consente di adottare nuove tecnologie e nuovi metodi di organizzazione del lavoro, il che fa crescere la forza produttiva del lavoro. Se a questo punto il salario reale e l’intensità capitalistica crescono nella stessa proporzione, il saggio del profitto non muta. Il salario reale può essere spinto verso l’alto dalla forza sindacale, sino ad eccedere gli incrementi di produttività; ma nel capitale monopolistico i prezzi sono «fatti»dalle imprese. Il possibile conflitto salariale potrebbe a questo punto essere «accomodato» dall’autorità monetaria, la quale favorisce quella risposta inflazionistica da parte delle imprese che è consentita dalla particolare struttura di mercato, permettendo loro di difendere, o persino ampliare, i margini di profitto.
Mentre in una situazione di libera concorrenza il salario reale segue da vicino i movimenti del salario monetario, le cose stanno diversamente in condizioni di monopolio. Ora l’incremento della forza produttiva si porta dietro una crescita del salario monetario che però può essere (più che) eroso dai prezzi. L’aumento tendenziale del plusvalore che ne discende può essere tanto più rilevante quanto più, nel capitalismo contemporaneo, il salario dipende dal conflitto tra le classi sociali, e non da una sussistenza data. Il problema di trovare uno sbocco al surplus si pone a questo punto in termini sempre più gravi. Se la domanda per investimenti e consumi dei capitalisti non è sufficiente ad assorbire il surplus, si apre un vuoto di domanda, che, se non è colmato per altre vie, rende soltanto potenziali e non reali i maggiori profitti insiti nell’accrescimento del sovrappiù.
La difficoltà di realizzo può essere risolta secondo modi «esterni» o «interni». Limitandoci a ricordare per il primo versante i già accennati filoni leniniano e luxemburghiano, concentriamoci sui secondi. Tra i modi «interni» vi sono i seguenti: spese per pubblicità; formazione di ceti che siano «puri» consumatori improduttivi; ampliamento delle burocrazie pubbliche e private; intermediazione commerciale pletorica, espansione della borghesia finanziario-speculativa. Di qui si origina una domanda di consumo che, se ha come sorgente ultima il plusvalore, viene immediatamente da ceti alleati al capitale che si sono appropriati di parte del profitto lordo. Va anche considerata la spesa pubblica, finanziata in disavanzo, quando dà luogo alla produzione di valori d’uso che non rientrano nella riproduzione del capitale. Svolge qui un ruolo centrale la spesa militare. Commenta Napoleoni nella voce «Capitale» della Enciclopedia Europea Garzanti:
“L’esempio di queste pratiche configura un capitalismo che è aggressivo verso l’esterno, e che ha rilevanti elementi di «improduttività» all’interno, dove la «produttività» è determinata secondo i criteri del capitalismo stesso, e dove, d’altra parte, il termine di riferimento è costituito dalle potenzialità implicite nello stesso capitale monopolistico, e non dai risultati conseguiti dal capitalismo concorrenziale, che aveva una dinamica certamente meno accentuata. Il capitale monopolistico, che pure ha modificato sostanzialmente il classico andamento ciclico del primo capitalismo, è dunque soggetto ad una particolare instabilità, dovuta alla compresenza della tendenza inflazionistica derivante dalla possibilità di amministrare i prezzi, e di quella deflazionistica, derivante dalla difficoltà di realizzazione.”
Nello sviluppo che Napoleoni propone delle tesi del Capitale monopolistico il punto di vista è integralmente immanente, in contrasto con le interpretazioni più consuete del libro di Baran e Sweezy. La sua lettura del capitalismo monopolistico viene prolungata in una interpretazione della crisi degli anni Settanta dove la variabile chiave è un aumento del salario relativo (cioè, relativamente al plusvalore) come reazione all’aumento dello sfruttamento. Secondo Napoleoni, il capitalismo monopolistico è sfuggito ad una nuova grande crisi da realizzo mediante l’espansione di un’area di «rendita» (che Baran e Sweezy avrebbero definito «spreco») la quale, se ha reso la massa del profitto appropriato dalle imprese minore di quella potenziale, ne ha però garantito gli sbocchi di mercato. Nel nuovo contesto, un più alto salario, aggiungendosi alla rendita, potrebbe comprimere il profitto effettivo. Qualora l’inflazione come meccanismo di recupero del profitto si rivelasse un’arma spuntata, incapace di moderare l’aumento delle retribuzioni reali, il salario come costo si andrebbe ad aggiungere al prelievo costituito dalla rendita: la caduta del profitto si confermerebbe, determinando una crisi strutturale del rapporto capitalistico. Se invece l’arma dell’inflazione si rivelasse efficace, potrebbe avvenire che gli stessi ceti improduttivi diventino la principale sorgente d’inflazione, determinando così per altra via una compressione del profitto e la crisi capitalistica. La pressione dal salario e dalla rendita potrebbe in teoria darsi congiuntamente.
Una riflessione del genere non la si trova in Baran e Sweezy, ma è a mio parere importante per intendere appieno la nuova grande crisi capitalistica che mette fine al cosiddetto «fordismo». Negli anni Sessanta e Settanta il gruppo della «Monthly Review» giudicava la classe operaia «centrale» integrata, e scommettevano sui movimenti alla «periferia». Napoleoni era al contrario convinto che alla fine degli anni Sessanta e neiprimi anni Settanta si fosse data una acutizzazione del conflitto di classe nel«centro» stesso del capitalismo. La posizione di Sweezy potrebbe a prima vista essere assimilata a quella espressa da Kalecki in un articolo sulla «riforma fondamentale» del capitalismo scritto con Tadeusz Kowalik. Quella di Napoleoni potrebbe invece sembrare in continuità con il Kalecki del 1943-44, che negava la possibilità di un capitalismo di piena occupazione e alti salari come situazione permanente. Una realtà del genere avrebbe eroso le basi del dispotismo capitalistico nei luoghi di produzione. I due scritti di Kalecki sembrano in contraddizione. Nel 1943 il capitalismo keynesiano è giudicato impossibile, se visto come regime stabile. Nel 1970 la tesi appare quella di una ormai compiuta stabilizzazione del capitalismo postbellico, grazie alle politiche economiche keynesiane. Le cose stanno un po’ diversamente. Nel 1970 i due economisti polacchi affermano che si sarebbe avuta una «limitata» e «temporanea» stabilizzazione del capitalismo rispetto all’instabilità drammatica, politica ed economica, che si era data nell’interludio tra le due grandi guerre mondiali. Nulla di meno, ma nulla di più: e anche qualche cosa di largamente condivisibile. Il che non toglie (come Kowalik oggi riconosce) che Kalecki,come anche Sweezy, sottostimassero le contraddizioni del capitalismo «centrale»di quegli anni. Su questo all’epoca lo sguardo di Napoleoni fu più lucido.
La «Monthly Review» e gli anni della «finanziarizzazione»
Si sbaglierebbe a sottovalutare il seguito dell’elaborazione di Sweezye della «Monthly Review». Come ho sostenuto con Halevi, il gruppo fu in grado di percepire nitidamente – molto più nitidiamente del resto del marxismo e del postkeynesismo – una delle strade di risposta del sistema alla crisi. Dalla fine degli anni Settanta Sweezy, quasi sempre insieme a Harry Magdoff, apportò un arricchimento essenziale alla teoria del capitalismo monopolistico, cogliendo con grande tempestività il ruolo cruciale del debito e della finanza. In questi scritti – si tratta per lo più di articoli poi raccolti in volume – si coglie bene il ruolo tanto patologico quanto funzionale all’accumulazione di questa rinnovata «finanziarizzazione», in undialogo a distanza con Hyman P. Minsky.
Già nella seconda metà degli anni Settanta Sweezy e Magdoff segnalano che l’esplosione del debito, sia pubblico che privato, introduce meccanismi qualitativamente nuovi, e segna una discontinuità. I due autori sono pronti a cogliere, al di là dell’integrazione, la frammentazione della classe lavoratrice, in modi che mettono in difficoltà la tradizione ricevuta del marxismo, e a sottolineare come prima necessità la lotta contro queste tendenze disgregatrici. Nella raccolta del 1977 viene chiarito il nesso che porta dal capitalismo monopolistico all’indebitamento. Il pezzo centrale di quel testo si intitola: «Banche: pattinando sul ghiaccio sottile». Benchè alquanto tecnico, è uno scritto preveggente. L’espansione dei crediti non era, in prima battuta, dovuta ad aspettative ottimistiche. Semmai, era diventato lo strumento per far denaro scommettendo sulla capacità di ripagare i debiti in futuro nonostante i vincoli posti alla liquidità e la circostanza che l’orizzonte temporale degli investimenti nello stock di capitale, come anche del «ritorno» in termini di flussi di cassa, era più lungo di quanto non fosse quello della restituzione dei prestiti. I due marxisti identificano, in altri termini, la tendenza ad un «accorciamento» dell’indebitamento. Pochi anni dopo, nella raccolta del 1981, individuavano, in tempo reale, l’incremento sistematico del rapporto tra consumo delle famiglie e reddito disponibile. Si tratta di fenomeni che discendevano – ma anche, rispondevano – alla tendenza stagnazionistica, e dunque si avvitavano su se stessi per impedire che quella tendenza si realizzasse a pieno.
Nella raccolta del 1987 Magdoff e Sweezy sintetizzavano così il loro discorso:
“Tra le forze contrastanti la tendenza alla stagnazione nessuna è stata così importante, e al tempo stesso meno compresa dagli analisti economici, della crescita – che inizia negli anni Sessanta e che rapidamente prende da allora velocità con la grave recessione degli anni Settanta – dell’indebitamento su scala nazionale (governo, imprese, individui) ad un ritmo che eccede di gran lunga quello dell’economia reale. Ne è risultato il costituisi di una superstruttura finanziaria enorme e fragile in una misura che non ha precedenti, e che è soggetta a tensioni e scosse che sempre di più minacciano l’intera economia.”
Si può a questo punto apprezzare quanto Sweezy osserva in una intervista pubblicata dalla «rivista del manifesto»in occasione dei suoi novantanni:
“Il capitalismo si modifica continuamente; non è mai uguale a se stesso. Questa integrazione globale di produzione e finanza in una teoria generale del processo capitalista sta ancora muovendo i primissimi passi; non viene mai trattata in modo esauriente. In Keynes vi sono alcuni accenni e anche Marx suggerisce qualcosa al riguardo, ma una vera e propria elaborazione teorica sarebbe avvenuta solo in una concreta fase storica che avrebbe reso necessaria la nuova teoria. E questo sta avvenendo oggi. Sia io sia Harry Magdoff sentiamo di essere forse troppo vecchi e non abbastanza agili intellettualmente per occuparci della questione. Quello che possiamo fare è incoraggiare i più giovani a riflettervi e magari a saltare fuori con qualche idea.”
Fin qui Sweezy.